
Per poter apprezzare Bridget Jones bisogna prima accettarla. Accettare tutta la sua sfacciata ironia, tutte le sue figuracce plateali, tutta la sua sfiga eccessiva.
Perché senza queste esagerazioni comiche l’omonimo personaggio di Renée Zellweger non sarebbe diventato un simbolo nell’immaginario culturale pop degli ultimi 20 anni. Nel 2001, infatti, Il diario di Bridget Jones inaugurava un modello di donna imperfetta e impacciata che ha fatto sentire rappresentata e capita un’intera generazione. Ma venticinque anni dopo, alle porte del quarto capitolo della saga Bridget Jones – un amore di ragazzo (trailer), Bridget è ancora capace di essere «una di noi» ?
Diretto da Michael Morris e tratto dal romanzo omonimo di Helen Fielding, il film ci guida nella vita di una Bridget cinquantenne che deve affrontare una fase nuova della sua vita con problemi di portata maggiore rispetto ai film precedenti, primo tra tutti il lutto, dopo che il finalmente marito Mark Darcy (Colin Firth) è venuto a mancare. Non solo, adesso è madre di due bambini, Billy e Mabel, non è ancora tornata al lavoro e non sa come riprendere in mano la propria vita personale e sentimentale.
La connotazione tragica della fine del matrimonio con Mark dona al film una nota più profonda del solito, che riflette sulla morte e sulle sue conseguenze verso i cari che rimangono in vita. Un taglio decisamente nuovo per i film di Bridget Jones, costruiti su tematiche più leggere, ma non per questo trattato con superficialità, anzi viene integrato dentro la narrazione in modo organico e naturale.

Come ogni film di Bridget Jones che si rispetti, la protagonista è circondata dalle solite domande insistenti di parenti e conoscenti pronti a giudicare ogni aspetto della sua vita. Un destino a cui nessuna donna può scappare: nemmeno il lutto, sembra dire il film, riesce a fermare le domande invasive sulla vita privata delle donne. E come liberarsi poi dell’insicurezza perenne, che coi suoi paragoni interiorizzati la fa sentire in difetto rispetto a chiunque, che siano le madri coetanee o la babysitter gen z?
Nonostante questo, Bridget è sempre Bridget col piglio ironico e maldestro, e sa come rialzarsi a modo suo. Sono i problemi intorno a lei a farsi più maturi e complessi, ad esempio il come riuscire a districarsi nel complicato ruolo della madre single lavoratrice, senza trascurare né se stessa né i figli. La tematica è estremamente attuale e realistica, perché il film sa di parlare ad un pubblico di affezionati che è cresciuto con la saga e che con buona probabilità sta affrontando le stesse difficoltà.
Questa consapevolezza permette al film di giocare sull’effetto nostalgia, con diversi riferimenti ai capitoli precedenti, alcuni più forzati di altri ma che contribuiscono a creare una patina tenera e mai ridicola. L’effetto è ricavato anche da un grande pregio di questa saga, essere riuscita a riproporre in ogni capitolo il cast originale al completo, mantenendo quindi sempre un forte appeal. Il film, infatti, mantiene ancora un posto d’onore per il bisbetico ma ancora affascinante Daniel Cleaver (Hugh Grant) o, come direbbero Billy e Mabel: «Zio Daniel», e raffigura più di una volta il defunto marito Mark, permettendo anche a Colin Firth di avere un suo cameo.
Nonostante vi sia ruotata intorno tutta la promozione del film, la tematica amorosa rappresentata dai due nuovi interessi amorosi Roxster (Leo Woodall) e Mr. Scott Wallaker (Chiwetel Ejiofor), lascia un po’ il tempo che trova. La storia con Roxster, il toyboy più giovane, conserva tutti i suoi cliché stantii sulla relazione tra una donna adulta ed un uomo giovane (anche se con qualche trovata esilarante), mentre il professor Wallaker è stretto dentro una dinamica forzata senza nessuna chimica.

Forse è anche perché, stavolta, Bridget non ha più bisogno di due pretendenti in lotta per lei, adesso la sua è prima di tutto una rinascita personale. O meglio, la riscoperta del sesso e delle relazioni sentimentali è solo uno dei mezzi che una persona può usare per ricominciare a vivere, perché così come il lutto, l’accettazione di sé non è un percorso lineare, ma fatto di alti e bassi.
Questo aspetto appare più attuale che mai nel nostro mondo che è ancora restìo a rappresentare una vita per le donne sopra i cinquant’anni, ed ecco che quindi Bridget Jones appare ancora necessaria a normalizzare con leggerezza e ironia determinati ambiti della nostra società. E stavolta fa un passo in più, aggiungendo una riflessione sul mondo giovanile, che guarda senza nessun giudizio ma solo con genuina invidia, suggerendo una collaborazione transgenerazionale che sappia andare oltre il gap inevitabile e lasciarsi alle spalle, insieme, stereotipi e vecchie credenze.
Insomma, Bridget Jones – un amore di ragazzo, col suo british humor e le sue note irriverenti, è una rom-com che conserva ancora il suo cuore pulsante ed è al tempo stesso al passo coi tempi, confermandosi come un sequel degno di questo nome. Bridget ci conosce bene, sa che tasto premere per farci piangere e ridere, proprio per questo può parlarci ancora spontaneamente e senza sforzi. In fondo sa che la amiamo così com’è, nelle sue contraddizioni ed esagerazioni, e la accettiamo senza giudizio. Forse, in questa avventura lunga venticinque anni, ci invita a non scordarsi di farlo anche verso noi stessi.
Dal 27 febbraio in sala.