Musical classico e western. I pilastri del cinema classico hollywoodiano al proprio principio ponevano sul ritmo trasognante dei momenti musicali e le vaste praterie cavalcate ai piedi della Monument Valley. Non è difficile coglierne il motivo: la combinazione di cinema e danza/musica e di cinema e mito americano hanno suscitato agli albori della settima arte una presa tanto produttiva quanto di vasta fruizione, su di un pubblico affascinato dalla commistione di un immaginario talmente distante dalla realtà. Distante e, guardando agli anni in cui veniva realizzato, edulcorato per poter incontrare i gusti di largo pubblico e, dagli anni Trenta, non dover incappare nei disguidi morali e giuridici del Codice Hays. Ma non è certo per il Production Code che, tra i due generi cinematografici, quello del musical si sia sempre affrancato a stilemi di eleganza, classe e armonia. Un incremento, quello del genere musicale, che moltissimo ha da ringraziare all’arrivo del sonoro e della registrazione di voci, suoni e canzoni. La tipologia di spettacolo coreografato e cantato che si consumava sui palcoscenici ebbe possibilità di trasportarsi su di un terreno nuovo e del tutto inesplorato, che ottiene ben altra dose aggiunta di gradevolezza con la possibilità di scenografie spettacolari, ambienti ben più spaziosi e con l’introduzione del Technicolor, che portò all’estasi della visione cinematografica in sala. Un clima di bellezza addolcita, dove i buoni sentimenti si riflettevano nella pratica dei passi di danza e nelle narrazioni spesso sofisticate o, comunque, delicate dei personaggi. Nel circolo di esperienze musicali di una giovialità estrema, che offrono meraviglie del cinema come, giusto per citare qualche classico, Il mago di Oz (1939), Cantando sotto la pioggia (1952), Gli uomini preferiscono le bionde (1953) e A Star Is Born (1954), arrivò però anche per Hollywood il momento di aggiornarsi e, soprattutto, affiancarsi ai movimenti culturali e sociali che il mondo ha percorso tra gli anni Sessanta e i Settanta. Violenza, sesso, droghe, giovani ribelli e la prospettiva di futuri incerti e costantemente in bilico. L’esatto opposto di quello che il musical aveva saputo donare nella sua stagione dorata, ma che dovette iniziare ad adeguarsi alle poetiche cinematografiche che i generi attigui avevano cominciato a seminare – innegabile l’apporto che film come La valle dell’Eden di Elia Kazan e Gioventù bruciata di Nicolas Ray, entrambi del 1955 e con l’iconico James Dean come protagonista e nuovo emblema del turbamento giovanile, hanno riservato all’apertura verso una strada meno dolcificata della vita sullo schermo, anche in generi come il melodramma. Primo sentore di mutamento è possibile coglierlo nel capolavoro del 1961 West Side Story di Robert Wise e Jerome Robbins, opera filmica nata dal libretto di Arthur Laurents e sulle note intramontabili della colonna sonora di Leonard Bernstein. Dalla più che evidente ispirazione shakespeariana, basata sui fatti funesti della tragedia di Romeo e Giulietta, il film comincia ad aprirsi ad una modernità di temi e situazioni (pur, ripetendo, proveniente dal chiaro rimaneggiamento del drammaturgo inglese) che difficilmente sarebbe stato facile trovare in pellicole di genere musicale nei medesimi anni. Oltre ad accenni di lotta, con il culmine, sul finale, degli omicidi dei personaggi e, soprattutto, con la morte tra le braccia dell’amata Maria del protagonista Tony, la patina favolistica del musical inizia a smascherare una vena ben più umana e passionale, che non nasconde più la rabbia, lo scherno portato al limite e il desiderio di vendetta ammorbiditi in altri musical, toccando vette di modernità tali da consacrare West Side Story nell’Olimpo dei classici della storia del cinema. E, oltre a quanto già sottolineato, è un’altra la componente che, benché accennata – seppur sempre velatamente – in altre pellicole, inizia ad acquistare una preponderanza che al musical mancava: una più marcata e consapevole presenza sessuale. Dalle battute allusive del personaggio di Anita, interpretato da Rita Moreno, alla ben più ambigua scena nella camera da letto di Maria, in cui Tony la raggiunge dopo aver ucciso il fratello di lei, il Bernardo di George Chakiris, e che nonostante il dolore della perdita, sembra comunque concedersi al proprio amato. Gesto che non vede mai compimento nell’inquadratura, ma che la conclusione della sequenza della canzone Somewhere fa supporre, con il bacio e il lasciarsi cadere sul letto della ragazza che sembra pronunciare l’amplesso tra i due giovani. Avvenimento confermato dal momento successivo dei protagonisti, svegliati dal bussare alla porta di Anita, in cui li ritroviamo addormentati in un abbraccio, con Tony senza alcuna maglietta addosso. Quello che, oggi, può sembrare un particolare irrilevante, acquista tutto ben altro sapore se messo nella prospettiva di un’epoca in cui si andavano spargendo i primi semi di argomenti rimasti fino a quel tempo tabù. Non necessariamente nascosti in maniera ossessiva, piuttosto trascurati in virtù di un immaginario asessuato che potesse mantenere l’alone di romanticismo e magia che il musical da sempre preservava. Ciò che, però, avviene con West Side Story, trova ulteriore e ben rafforzata conferma in un film del 1969, data limite per il principio di quella New Hollywood (che vede come film iniziatico Bonnie and Clyde di Arthur Penn nel 1967) che cambiò gli stilemi dell’industria cinematografica, americana e non; la quale mossa, come già preannunciato, dagli scuotimenti della società dei costumi e di un più disinvolto senso morale, accolse una simile trasformazione portando in seno l’arrivo della persona più adatta per riformare il genere musicale.
Il 1969 è, infatti, l’anno di uscita di Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata, esordio da regista cinematografico del ballerino e coreografo Bob Fosse che, prima dell’arrivo alla sala, portò il medesimo musical a Broadway nel 1966, interpretato dalla musa, (ex) moglie e collaboratrice Gwen Verdon. Film che, nonostante il flop al botteghino e la poca risonanza che ebbe nell’ambiente, pose fin dall’inizio ciò che avrebbe caratterizzato il cinema e la danza di una delle figure di maggior rilevanza della scena mondiale del musical, che stravolse gli stilemi della Hollywood classica, attenendosi alla stagione in cui era collocato e sapendola masticare fino a renderla propria, intrinseca e personale. Uno stile Fosse che, certamente, risentì delle condizioni in cui il mondo stava riversando alla soglia degli anni Settanta, ma che la biografia dell’artista aveva già segnato fin dai primi anni della sua giovinezza. Nato a Chicago nel 1927, Bob Fosse debuttò negli show notturni dei locali della propria città, nel circolo degli spettacoli di varietà e di burlesque, offuscato dai fumi di sigarette e dall’alcol a buon prezzo. Su note jazz, che rendevano esplicito anche il più impercettibile dei gesti, creò le proprie coreografie, girando per qualche tempo le basi militari con lo show Tough Situation, con l’intenzione però di arrivare presto ad Hollywood e veder brillare la propria stella. Fu per Baciami Kate!, film del 1953 di George Sidney, che Fosse riuscì a farsi notare, cominciando il proprio percorso sotto i riflettori del teatro, del cinema e della tv. Con Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata, Fosse trovò l’ispirazione per debuttare dietro la macchina da presa. Il soggetto era ideale: Charity Hope Valentine, taxi girl in un malfamato locale newyorkese, si lascia sempre ingannare da qualsiasi uomo le offra un po’ d’attenzione. Non si tratta certo di ingenuità, soltanto dal desiderio di venire amata. E così, dopo essere stata buttata da un ponticello a Central Park dal futuro sposo e aver passato la notte nello sgabuzzino di un famoso attore italiano, Charity incontra finalmente Oscar, gentile e premuroso, fedele agli ideali di purezza e morigeratezza che ogni brava ragazza dovrebbe rispettare. Così, per Charity, la vita si dividerà in due: da una parte nascondere le reali prestazioni che offre durante il proprio lavoro e dall’altra perseguire la felicità accanto ad Oscar. Alla base di Sweet Charity è possibile ritrovare un grande classico della storia del cinema italiano. Le notti di Cabiria del 1957 di Federico Fellini viene preso ad esempio non soltanto per la trama dell’opera, ma è dalla sensibilità sensuale e insieme innocente, tangibile e artistica che l’autore italiano ha saputo dare alle sue donne e alla sua Cabiria che Bob Fosse vuole attingere a piene mani. L’aperta danza del corpo, della fisicità che Fosse ha da sempre messo in primo piano, si addice con ragionata aderenza al racconto di Cabiria/Charity, alla fantasia che contraddistingue il personaggio e alla gravitas contornata di leggerezza, quella poetica di Fellini e quella danzante di Fosse, che ne determina la sorte e la messinscena. Bob Fosse, nel ’69, sceglie come protagonista di un film una “taxi girl”, un’accompagnatrice, indubbiamente compromessa dalle prestazioni con i propri clienti. In fondo, Cabiria, era una prostituta di strada che abitava nella periferia romana. Con Sweet Charity incomincia un cambio di rotta per ciò che aveva rappresentato fino a quel momento il musical classico, che agisce ancora con forza sul primo Bob Fosse, ma che il regista comincia a contrastare pian piano scegliendo una protagonista legata al periodo della ricerca dell’uguaglianza sessuale e della protesta femminista. Anche la scelta dei balli e delle musiche si avvicina al momento storico in maniera pedissequa e attenta: hippy, borghesia stilizzata e avanspettacolo a basso prezzo presentano ognuno le proprie delineazioni, messe in evidenza dai passi coreografici di Bob Fosse e che si prestano come trampolino di lancio per ciò che significherà il suo lavoro successivo, Cabaret.
Abbattuto dai riscontri negativi di Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata, Bob Fosse si appresta a dirigere il secondo film della propria carriera che, ancor più del film con Shirley MacLaine, ne ha contraddistinto lo stile, diventato nel tempo marchio imprescindibile dell’artista, sia dal punto di vista di coreografo che di regista – nonostante, è bene sottolineare, l’impatto che due sequenze come quella di Big Spender e The Aloof, The Heavyweight, The Big Finish hanno riscosso sul pubblico e il circolo hollywoodiano. Cabaret non solo raggiunge un successo inimmaginabile, portando addirittura Fosse alla notte degli Oscar e facendogli vincere otto statuette d’oro (Miglior regia, Miglior attrice protagonista, Miglior attore non protagonista, Miglior fotografia, Miglior fotografia, Miglior montaggio, Miglior scenografia, Miglior sonoro, Miglior colonna sonora), ma ne riaffermò il talento mai messo in discussione, ma che non era riuscito a sprigionarsi in maniera così dirompente come nella storia di Sally Bowles nella Berlino del 1931, durante la Repubblica di Weimar. E proprio con Cabaret è possibile vedere quel cambiamento di cui abbiamo parlato e che Bob Fosse intraprese con carica instancabile. Tutto ciò che aveva imparato dall’avanspettacolo, tutte le store dietro le quinte, le esibizioni sui piccoli palchi dei locali, Fosse lo rese materiale per uno dei musical che più conquistarono la scena mondiale e che, più di tutti, ha consentito al genere di integrarsi ai cambiamenti in corso nella propria epoca. Tratto dal romanzo di Christopher Isherwood, sulle stupende note della colonna sonora composta da John Kander, Cabaret permise a Fosse di addentrarsi in profondità nei passi che lo contraddistinsero dal panorama del musical, in via di avanzamento e con il regista come apripista della riforma musicale al cinema. Ciò che più contribuì alla metamorfosi del genere e che l’artista pose con i primi accenni in Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata, fu la massiccia eppur raffinata, trasparente eppure fascinosa presenza del sesso. Il sesso fu il fattore decisivo perché il musical potesse prendere distanza dalla mitigata atmosfera d’amore e di sogno che lo rese la stella più luminosa nel firmamento dei generi cinematografici. Ma, all’inizio degli anni Settanta, era impossibile per un artista come Bob Fosse rimanere estraneo al flusso di sensualità e provocazione che i moti rivoluzionari stavano offrendo, anche quando ad essere tirato in ballo era un locale notturno come il Kit Kat Club nel cuore della Germania pre-nazista. L’inclusione culturale e la presenza, in quel preciso momento storico, in quel preciso clima, di una sensibilità come quella di Bob Fosse si rivelarono uno di quei luminosi eventi che non avrebbero potuto avere più fortuna se non si fossero incontrati esattamente in quel punto e esattamente in quello spazio. Fosse, adolescenza e prima età adulta passata a dimenarsi su note jazz, poté riversare la propria conoscenza per lo stile scarmigliato sul palcoscenico dei protagonisti di Cabaret, con una Liza Minnelli accattivante e fragile e un Joel Grey ammaliatore, che come capocomico e presentatore delle serate, incarna tutta la finzione, il mistero e la curiosità di un mondo danzante che nessun altro sapeva caricare di eccitazione come Bob Fosse. Il che, se si torna indietro a guardare un secondo le aspirazioni del giovane Fosse, erano ben lontane dalla lussureggiante tentazione di balli proibiti e consumati tra le lenzuola. Perché il desiderio di Bob Fosse era quello di diventare il nuovo Fred Astaire, mito indiscusso, ma che la storia aveva già avuto e che la calvizie precoce del regista non poté esprimere al proprio massimo. Dunque, tenendosi, a questo punto, all’esatto opposto delle danze composte del maestro Astaire, dalla garbata bolla in cui era rinchiuso il suo cinema e le sue coreografie, Fosse compie il percorso inverso, sfociando negli istinti umani primitivi e mischiando i corpi, il sudore e il sesso. E se Cabaret, nella propria lente ristretta, tratta la decadenza di una società che si avvia verso gli illeciti fatti della Seconda Guerra Mondiale, a livello extradiegetico e inserito nella storiografia del genere, segna la decadenza di costumi e buon comportamento che avevano esaltato il mondo del musical. Ed è la percezione che, nel pubblico, si ribalta, non cogliendo nei conturbanti numeri musicali la perfezione del movimento o l’ensemble moderato al millimetro, ma rimanendo strabiliato piuttosto dall’attraente contributo che Fosse ha inserito nel proprio film e portandolo ad una cifra tale da riempirlo di malizia, rendendo la seduzione materia prima di scambio con lo spettatore. Non servono passi plateali al cast e al corpo di ballo di Bob Fosse, né acrobazie che catalizzino l’attenzione e puntino sull’esplosione visiva. Cabaret, come tutto il cinema del cineasta, si destreggia con le piccole movenze, con le impercettibili soluzioni coreografiche che, nella loro misurata messa in atto, sprigionano una forza comunicativa che nessun altro aveva saputo risolvere in termini di charme e attrattiva come il regista/coreografo. Sally Bowles non ha bisogno di cenni appariscenti, il suo senso esibizionistico prevale nei piccoli gesti che vanno a comporre i momenti davanti al pubblico e si avvia ad un crescendo sempre sottile, che comincia dal basso per esprimersi poi con tutta la sua energia nel finale del pezzo musicale. Che si tratti di uno sketch comico sceneggiato (Money, Money), di un brano intimo e personale (Maybe this time), che ci si ritrovi al culmine dello spettacolo serale (Mein herr, Cabaret). Fosse concentra l’azione per farla accumulare al centro del personaggio principale e, con la sfrontatezza della propria danza e del proprio senso dello show, ne permette la liberazione più sincera, vera e appassionante. Sconvolgendo Hollywood e l’universo del cinema, Cabaret ridefinì il parametro di attuazione e giudizio dei musical da quel momento fino alla sua uscita, stabilendo non necessariamente un nuovo standard, ma di certo un inedito e dirompente modo di approcciarsi al genere, che non gli avrebbe più permesso di poter tornare ai fasti gloriosi della Golden Age americana. Lo spostamento che Cabaret applica dalla prospettiva quasi onirica del musical classico a quello carnale e prorompente avviato negli anni Settanta, si riscontra in ogni aspetto della pellicola, dal contenuto alla messinscena, dalle intenzioni di alleviare la visione cinematografica dello spettatore a quelle più triviali di coinvolgerlo in un rituale fatto di fisicità dominante. È proprio la muscolarità dei movimenti di Bob Fosse che, travisti nella sua opera prima, trovano la maniera migliore di venir rappresentati, e lo fanno questa volta con il supporto di una sceneggiatura – e un libro alle proprie spalle – dal potenziale ideale. Cabaret non è solo la sofisticazione di un retroterra come quello del cabaret, ma la mescolanza di intellettuali, aristocrazia e borghesia con gli interessi più genuini e primordiali. Così, dopo una iniziale amicizia, Sally introduce Brian Roberts ai piaceri del sesso, in uno scambio amoroso e sessuale che si rispecchia nelle prestazioni sonore e danzanti della protagonista. Non solo erotismo tradizionale. Cabaret esplora, infatti, un’identità omosessuale che mai – o, comunque, davvero poco frequentemente – era stata espressa con tale sfacciataggine, palesandola con una classe che sa rafforzarsi tramite la schiettezza dei toni usati e che si fa predominante nella gestione dei rapporti che vanno intrecciandosi tra i presenti della storia. Fuori e dentro la scena, ripreso o solo presupposto, mostrato o solamente citato, il sesso e la promiscuità che lo accompagna si dichiarano componenti essenziali anche per ciò che viene portato sul palcoscenico, perché in fondo “Life is a cabaret, old chum. Come to the cabaret!”.
Dopo aver segnato la linea di demarcazione tra sé e il resto dei musical, Bob Fosse portò avanti la propria carriera di regista cinematografico, dirigendo nel 1974 il film biografico/drammatico Lenny sulla vita del comico Lenny Bruce, interpretato da Dustin Hoffman e che non fu escluso dalla cerchia dei riconoscimenti di quella stagione – ben sei nomination agli Oscar e tre ai Golden Globe. È nel 1979 che Bob Fosse raggiungerà il suo apice (non che la sua carriera durerà poi ancora a lungo, dirigerà infatti nel 1983 Star 80, suo ultimo film, e morirà di infarto qualche anno dopo, nel 1987). Vincitore della Palma d’oro – in ex equo con Kagemusha – L’ombra del guerriero di Akira Kurosawa – nel 1980 alla 33esima edizione del Festival di Cannes, All That Jazz – Lo spettacolo comincia è la quintessenza di chi era Bob Fosse, di cosa facesse Bob Fosse, di come lo facesse e perché, nel mondo e fino ai giorni d’oggi, siamo ancora portati a parlare e ammirare il lavoro svolto da Bob Fosse. Il richiamo a Federico Fellini è nuovamente presente. Questa volta il regista non sceglie una storia dell’autore italiano per rimodellarla nella propria cornice e inserendo al suo interno momenti di puro intrattenimento. Con All That Jazz Fosse decide di mettere in scena il proprio 8½, l’omaggio al film su cosa significa essere un artista per eccellenza, che delle idiosincrasie il cineasta aveva fatto cinema e le aveva rese ritratto immortale della vita artistica. Importante è anche la data, l’anno in cui Fosse sentì la necessità di portare sullo schermo il proprio racconto. Come il 1969 fu il coronamento di una visione inedita – ricordiamo, avviata nel ’67 -, che andava condizionando anche le tipologie di racconto e come dovevano essere narrate da quel momento in poi, il 1979 era la soglia oltre cui quella maniera di fare cinema avrebbe rivisto nuovamente i propri caratteri e li avrebbe ridimensionati alla luce dell’arrivo degli anni Ottanta. Non solo, dunque, All That Jazz – Lo spettacolo comincia, può considerarsi sia esaltazione della vita, personale e artistica, di Fosse, ma anche come il modo di dire addio ad una visione cinematografica e spettacolare che, di lì a poco tempo, sarebbe stata stravolta nella sua già precaria stabilità, raggiunta e, anche, superata, tanto che si preparava lentamente a scomparire. E, se bisogna lasciare la scena, bisogna certo farlo in pompa magna. Copia esatta della sua vita, il protagonista Joe Gideon, magnificamente interpretato da Roy Scheider, è Bob Fosse sotto qualsiasi lente lo si osservi: la sua maniacale ricerca di perfezione e autenticità, la minuziosa attenzione al lavoro che diventava ossessione e insoddisfazione costante. E le sigarette, il consumo di alcol e pillole, l’infedeltà che ha punteggiato qualsiasi delle sue relazioni, a parte quella con la figlia, che sogna anche lei di fare la ballerina (cosa che Nicole Fosse, vera figlia del regista e dell’ex moglie Gwen Verdon, è poi diventata). Nonostante l’impazienza e il dissiparsi delle forze fisiche, Joe Gideon si impegna comunque a completare quello che, probabilmente, sarà il suo ultimo show, il più rappresentativo, il più clamoroso. Per questa ragione si sveglia tutte le mattine, per questo continuerà ad andare avanti, anche quando il corpo non vorrà più ascoltare le sue richieste: “It’s showtime folks!”. Non poteva dunque mancare quella cifra stilistica che, come si è cercato bene di spiegare, ha reso eterna la scuola Fosse. La provocazione raggiunge il proprio massimo in All That Jazz, si respira erotismo e sudore da ogni singola inquadratura. Il corpo di ballo non è più al servizio delle coreografie, ma diventa le coreografie, che trasformano qualsiasi evento, dalle prove in una sala specchiata alle fantasie immaginifiche di un uomo quasi in coma, in spettacolo. E lo fanno recitando ognuno la propria parte, non da semplici ballerini, ma integrando alla loro componente danzante quella dose di recitazione obbligatoria per poter restituire interamente lo stile Fosse. Il sesso è sempre protagonista e raggiunge il proprio apogeo con la sequenza di Take Off With Us, in cui viene raccolto tutto il materiale che Bob Fosse ci ha concesso negli anni e che viene proposto al proprio punto estremo, spingendosi dove la danza ancora non si era mai spinta così esplicitamente al cinema. Impostando la coreografia come se si trattasse di salire a bordo di una compagnia aerea, la prima parte del ballo presenta già elementi altamente carnali al proprio interno, mitigati però dall’aria irriverente della canzone e del balletto, evidentemente sensuale e che stuzzica l’immaginazione. È, poi, nella sua parte centrale che la scena acquista un valore mai stato così apertamente sessuale, non tanto nelle movenze o nelle allusioni, già notate e manifeste nelle coreografie di Fosse, quanto nella vera e propria simulazione del balletto come atto sessuale, amplesso a tutto tondo. Non a caso la compagnia di volo dei ballerini, da qual momento in poi, si chiamerà Air Erotica. Ed erotico è tutto ciò che si consumerà da quel momento fino alla fine della scena. Bob Fosse, come ad un evento organizzato puramente a scopi sessuali, coreografa la sequenza come l’incontro tra futuri amanti e il loro immediato compenetrarsi. È con lo spogliamento che si dà il via a Air Erotica: le tutine si aprono, le maglie si tolgono, soltanto della stoffa aderente e leggera copre le parti intime degli uomini, mentre le donne lasciano (poco) spazio alla fantasia. Dopo le presentazioni inscenate, può cominciare l’atto carnale. Bob Fosse suddivide le coppie principali in tre, al centro quella eterosessuale, ai lati quelle omosessuali, con due donne e due uomini che ricreano movimenti tali da ricordare ciò che accade nell’intimità, fino a farli arrivare al massimo del piacere. Ma non è ancora il momento di interrompere. Da quelle sole coppie, il corpo di ballo diventa un’unica massa attorcigliata, fremente, che scambia sudori, si tocca, si abbraccia, in quella che, attraverso la danza, diventa un’orgia libidinosa e lasciva. Nulla è, però, fatto puramente per eccitare volgarmente lo spettatore: nella concupiscenza dei passi di danza, i ballerini disvelano quella che è la natura atavica delle persone e la ripropongono con agilità sopraffina, precisione millimetrica e un erotismo che non sfocia mai nella facilità grossolana, elevando la carne e l’unione con l’altro (e gli altri) tramite piccoli cenni che acquistano man mano potenza. Una tensione centralizzante, finalizzata solamente all’elogio della bellezza di un azione come quella che può esserci tra persone. Se il film disvela l’intimo di Bob Fosse, allora Take Off With Us disvela ciò che ha ispirato nella sua carriera il regista, quell’attrazione che ha rivoluzionato il musical e diventa quanto mai lampante nella scena analizzata. Nella sua ultima parte, Air Erotica supera addirittura quell’apice che si credeva non avrebbe potuto spingersi oltre, continuando nel scoprire il fisico del corpo di ballo e facendo togliere alla ballerina principale il proprio reggiseno, lasciandola completamente a petto nudo e continuando a farla ballare facendola diventare il centro stesso del finale. Soltanto con la biancheria intima a coprirle la zona del pube, la danzatrice si dimena su di una costruzione apposita per la coreografia, azzardando pose plastiche che la mettono completamente in mostra e catalizzando quello spargimento di eros che aveva dato pulsione alla sequenza. Alla fine, l’esperienza Air Erotica si conclude, i passeggeri si salutano, ringraziano per l’avventura regalata e si allontanano, fino a raggrupparsi un’ultima volta per capeggiare con i propri volti al di sopra di una luce gialla, che ne isola i contorni. L’importanza di una scena come Take Off With Us è fondamentale per cogliere l’influenza che Bob Fosse ha avuto sul musical cinematografico, tanto quanto su se stesso. Ciò che accennava nel 1969 con Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata e che diventa palese con Cabaret nel 1972, viene potenziato dieci anni dopo il suo debutto e lo consacra definitivamente ad inventore che ha saputo agire con coraggio e lungimiranza creativa, impiegando sempre con rispetto la materia che aveva tra le mani, plasmando anche quella che in natura sarebbe potuta risultare la più volgare tra le idee, e che a passo di danza Bob Fosse ha invece reso distinta e, per questo, indimenticabile.
Un artista che, aspirando alle vette dei maestri, le ha raggiunte e superate, per fare in modo che il genere musicale potesse avanzare e permettendogli di evolversi per rispecchiare un’emotività, frizzante e sovversiva, che stava ribollendo negli strati inferiori della società, fino a portarla al di fuori. Una percezione della danza come versamento incontenibile, che nella mescolanza di jazz, recitazione e presenza statuaria, ha firmato il successo di un regista, coreografo e artista, nonché uno dei capitoli più interessanti e eccitanti della storia del musical.