Come testimoniano le sue canzoni, dense di immagini e allusioni al mondo cinematografico, e la sua volontà di incarnare diverse personalità nel modo in cui un attore interpreta ruoli differenti, la vita musicale di Bob Dylan è stata a lungo influenzata dal mondo del cinema. Allo stesso tempo, numerosissimi registi, già a partire dagli anni ’60, attingono dalla sua eredità: dai testi, per la creazione di nuove trame e personaggi; dalla musica, per accompagnare al meglio le peripezie che si svolgono all’interno del loro film.
Forse l’impresa cinematografica più nota di Dylan (e certamente quella che ha esercitato il maggiore impatto culturale) ha coinciso col suo debutto sul grande schermo: il rivoluzionario documentario di D. A. Pennebaker Dont Look Back. Girato nel corso di tre settimane in Inghilterra nella primavera del ‘65, il film cattura uno dei momenti più importanti della storia della musica del Novecento, ovvero Dylan che si appresta a passare dal suo suono acustico, caratteristico del genere folk, al rock in piena regola, con tanto di chitarre elettriche distorte.
Sebbene al pubblico odierno possa sembrare un mero cambiamento di stile, a suo tempo si trattò di una mossa epocale che confuse e addirittura oltraggiò molti dei suoi fan. Dal punto di vista filmico, invece dell’agiografia che ci si potrebbe aspettare, Pennebaker offre uno sguardo inedito di Dylan, mostrandolo nel backstage del tour, mentre conversa con fan e giornalisti emanando una combinazione di fascino, arguzia tagliente e talvolta arroganza.
Per di più, Dont Look Back è pieno zeppo di una serie di scene memorabili, che successivamente sarebbero state annoverate come alcuni dei momenti più illustri della carriera dell’artista. La sequenza di apertura, ad esempio, in cui sentiamo in sottofondo Subterranean Homesick Blues mentre un altezzoso Dylan scarta una raccolta di parole estrapolate dalle sue lyrics, è servita essenzialmente come prototipo per quello che sarebbe diventato il video musicale.
Per citarne un’altra, la scena in cui Dylan ascolta pazientemente Donovan canticchiare una delle sue canzoni, per poi rispondere con una devastante interpretazione di It’s All Over Now, Baby Blue, sarebbe stata l’origine della storica inimicizia tra i due. Ad ogni modo, l’impatto di questo documentario, sia in riferimento al mito di Bob Dylan sia riguardo al genere documentaristico in sé, è innegabile.
Il nuovo approccio di Bob Dylan con l’elettrico è stato testimoniato in modo più completo da Festival, un documentario sul Newport Festival, che include le esibizioni dei più grandi cantautori folk durante le edizioni tra il ’63 il ’65. Qui vi troviamo infatti anche il famigerato concerto, in cui Dylan, dopo un paio di brani acustici, suonò alcune canzoni con una Stratocaster, generando infinti fischi dalla folla.
L’anno successivo, sotto l’egida dell’emittente televisiva ABC, il cantautore iniziò a lavorare a un lungometraggio che avrebbe documentato il suo tour nel Regno Unito, intrapreso con il gruppo rock The Band. Ancora una volta, Pennebaker venne assunto per dirigere il film; ma dopo aver visionato il montaggio, Dylan lo reputò troppo simile a Dont Look Back. Decise quindi di tagliare nuovamente la pellicola a suo piacimento e di rinominarla Eat the Document. La ABC però la respinse prontamente, poiché troppo incomprensibile per essere trasmessa. Sebbene non venne mai rilasciato ufficialmente, il documentario nella versione dylaniana arrivò nel circuito bootleg intorno al ‘72.
Nello stesso anno, i fan di Dylan furono inoltre accontentati dall’uscita del film The Concert for Bangladesh, sul concerto di beneficenza organizzato da George Harrison e Ravi Shankar per raccogliere fondi destinati ai rifugiati della guerra per la liberazione del Bangladesh. La presenza di Dylan non venne annunciata, perciò, salendo sul palco del Madison Square Garden, sorprese tutti. Al suo fianco vi era poi un ensemble di alcuni dei migliori musicisti dei primi anni Settanta, tra cui Eric Clapton, Leon Russell, Billy Preston e Ringo Starr.
Sebbene nel corso degli anni il nome di Bob Dylan fosse emerso durante i casting di una serie di film, il primo ruolo di attore se lo aggiudicò nel ‘73, quando Kris Kristofferson lo invitò a scrivere la canzone principale per il nuovo film a cui stava lavorando, Pat Garrett & Billy the Kid. Leggenda narra che Sam Peckinpah, il regista, non aveva mai sentito parlare di Dylan o della sua musica, ma quando ascoltò la canzone che aveva scritto per il film (una certa Knockin’ on Heaven’s Door), ne fu così colpito non solo da fargli comporre l’intera colonna sonora, ma addirittura da proporgli di interpretare un vero ruolo sullo schermo, quello di Alias, l’amico di Billy the Kid.
L’opera però ebbe una produzione travagliata, che continuò anche dopo che le riprese vennero ultimate: Peckinpah venne licenziato dopo aver completato il montaggio, considerato inguardabile dalla MGM, che lo rimontò in una nuova versione più breve. Nel 1988, tuttavia, la versione di Peckinpah fu riscoperta e pubblicata con grande successo, tanto che, per molti critici, si tratta di uno dei più grandi western mai realizzati.
Nella seconda metà degli anni Settanta, Bob Dylan mise insieme il suo film, un collage a narrativa libera che combinava filmati di performance, interviste e una serie di scene drammatiche, in cui i suoi collaboratori improvvisavano situazioni davanti alla camera. Utilizzando il classico francese Amanti perduti come canovaccio tematico e strutturale, il film vede Dylan in persona alle prese con la fama cresciuta intorno a lui, con alcune digressioni filosofiche sull’eterno tema dei rapporti uomo-donna.
Forse inevitabilmente, quando quest’opera, intitolata Renaldo and Clara, uscì al cinema all’inizio del ‘78, ricevette recensioni assolutamente feroci, anche da parte di quella critica che aveva da sempre lodato tutto ciò che il cantautore aveva prodotto. Il risultato fu anche un clamoroso insuccesso al botteghino, tanto che la casa di distribuzione bloccò il film dopo soltanto un paio di giorni di proiezione.
Dylan avrebbe riacquistato un po’ di stima, cinematograficamente parlando, qualche mese più tardi, con l’uscita di The Last Waltz, il celebre documentario, diretto da Martin Scorsese, sull’ultima esibizione del gruppo The Band, in cui Dylan apparì come una delle numerose guest star. Ma quella sarebbe stata la sua ultima apparizione sul grande schermo per almeno vent’anni. Durante questo periodo, si trovò a lavorare occasionalmente con registi celebri su piccoli progetti, tra cui occorre citare la collaborazione con Paul Schrader per il video musicale di Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love).
Nel 2000 l’artista ricompare sotto i riflettori di Hollywood grazie alla vittoria dell’Oscar per la migliore canzone originale Things Have Changed, per il film Wonder Boys. Questo ritorno ad un ruolo creativo in una produzione cinematografica ispirò Dylan ad una seconda incursione nel mondo del Cinema. Con l’aiuto di Larry Charles alla sceneggiatura, nel 2003 confeziona Masked and Anonymous. Ambientato in una terra senza nome, chiara parodia degli Stati Uniti, il film vede Bob Dylan nel ruolo del cantante rivoluzionario Jack Fate. Accanto a lui, vi è un complesso di star incredibilmente eterogeneo, che include attori del calibro di Jeff Bridges, Penelope Cruz, Mickey Rourke, Ed Harris e Luke Wilson.
Qualche anno dopo, lo sceneggiatore e regista Todd Haynes realizza un’opera ispirata all’eredità di Dylan. Secondo un modello narrativo estremamente frammentato, Christian Bale, Heath Ledger, Richard Gere, Ben Whishaw, Marcus Carl Franklin e Cate Blanchett interpretano i sei protagonisti, prosopopee dei momenti chiave della sua carriera. Sebbene possa sembrare pretenzioso, Io non sono qui (trailer) si configura come un film ponderato e curato nei minimi dettagli: si tratta forse della contemplazione artistica più convincente e interessante riguardo al lascito di Dylan.
Infine, a proporre uno sguardo più diretto sulla vita del cantautore sono i due ulteriori, epici documentari diretti da Martin Scorsese. Il primo, andando in ordine cronologico, è No Direction Home (2005) (trailer), che copre il periodo compreso dal suo primo arrivo sulla scena musicale di New York fino al ’66, anno del suo famigerato incidente in moto. Il progetto era originariamente una semplice raccolta di interviste condotte dal manager di Dylan, Jeff Rosen, con Joan Baez, Allen Ginsberg, Pete Seeger e molti altri. Partendo da un corpus di circa dieci ore, Scorsese viene coinvolto col compito di dare forma a questo materiale d’archivio quasi totalmente inedito. Simile a No Direction Home, il più recente Rolling Thunder Revue (2019) (trailer), oltre a includere un’altra serie di interviste tenute da Rosen, riporta sullo schermo vari spezzoni del nefasto film Renaldo and Clara.