Martin Scorsese declinando i cinecomic a genere esclusivamente legato allo svago e paragonandoli, appunto, a salite e discese di rollercoaster, si sarebbe dovuto aspettare una controrisposta di qualche genere, volontaria o meno. Eppure a rendere il tutto ancora più entusiasmante è che a rispondere è stata proprio la sua beniamina, azzarderei “figlioccia”, alla quale ha spianato la strada del successo: Margot Robbie, che in Birds of Prey, distrugge (letteralmente) i suoi avversari su una giostra all’interno di un parco divertimenti sudiciamente abbandonato e macabro, in quella che probabilmente è la scena di combattimento più cool dell’anno.
Harley rinasce, dopo quell’eclatante fallimento di critica che fu il Suicide Squad di David Ayer, in una nuova veste, meno attillata, sempre provocante, ma per nulla sessualizzata. Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn (trailer) è auto-prodotto dalla sua attrice protagonista, per trovare sicuramente quell’appeal al femminile che mancava alla squadra suicida, fin troppo machista e goffamente fumettistica.
A fare da recap è un’animazione accompagnata dal voice over della protagonista che fa un sunto di questi quattro anni d’assenza: con il Joker è finita (per fortuna), ora è sola e annoiata. La nuova Harley, non più versione aliena dai banali sguardi nel vuoto, è ora più umana che mai, si adagia su tutti i cliché legati a un breakup, veritieri e ironicamente stereotipati. E quindi via a pianti disperati, zuccheri a volontà e ubriacature nei pub di una Gotham, in un modo molto più legato alla tradizione scorsesiana che al mondo (opposto) Marvel. Non da sottovalutare l’equilibrio trovato post-Joker, in grado di riesumare come fu per Todd Philips una New York polverosa e criminale, qui dalle tinte più vibranti e accese, con annessi tombini zampillanti d’acqua à la Spike Lee di Fa la cosa giusta.
A colpire è senz’altro l’attenzione della DC nel neutralizzare l’effetto Super per conferire ai suoi eroi, o meglio, agli anti-eroi assetati di vendetta e riscatto, un marcato senso di umanità insito in un mondo che vuole senz’altro apparire quanto più realistico che mai, purtroppo qui, non riuscendoci totalmente. A fare da contrappunto non è tanto la presenza di topoi legati a quel mondo ma più un bisogno, ora sicuramente più velato, d’intrattenimento a tutti i costi. Da qui un uso ridondante e a volte patetico di musica pop in determinate sequenze, che accompagnate da altri intenti, avrebbero reso il tutto quantomeno più elegante. O un montaggio troppo macchiettistico e concentrato sul voler essere a tutti i costi esplicito, ri-utilizzando immagini dal film precedente alla rottura o non lasciando fluire delle scene che avrebbero senz’altro gioito della loro ricercatezza artistica (esempio calzante Harley versione Marylin Monroe in un richiamo a Gli uomini preferiscono le bionde).
Alla regia Cathy Yan, che riesce impeccabilmente a bilanciare i toni comici con quelli più brutali, incorniciando il tutto con un gusto estetico fatto di rimandi cinematografici e stilistici per niente banali. Sorretta da un esperto come Matthew Libatique alla fotografia, riesce a far esplodere e valorizzare ogni minimo colore presente in scena, componendo un film scattante, esplosivo e inarrestabile. A colpire è uno script coinvolgente e diretto con un appeal comico calzante, in grado di chiarire i continui salti temporali, fra flashback, approfondimenti su personaggi e intrecci narrativi. Troppo sbrigativo per quanto riguarda le caratterizzazioni dei personaggi (quello di Ewan McGregor in primis) e con la presenza di un plot emotivo superficiale, il film converge esclusivamente nell’esigenza narrativa finale: la formazione di una nuova squad, questa volta tutta al femminile, molto più audace e furiosa rispetto la precedente.
Seppur macchiettistico, emerge il concetto grecizzante della maschera e la sua teatrale funzionalità, che lascia però un’impronta futile, esita a spiegare esclusivamente il perché di scelte estetiche legate ai costumi del nemico di turno, che avrebbero giovato di più se sorrette da una psicologia, non dico stratificata, ma sicuramente meno esplicita. Funzionale invece la figura dell’arlecchino-servo che raffigura perfettamente, senza nessun tipo di pretenziosità, la condizione mentale e fisica della protagonista, valorizzando la sua libertà d’azione, non più ostacolata da nessuno, tantomeno un uomo.
Birds of Prey colleziona scene d’azione isteriche (alle coreografie Jonathan Eusebio e supervisionate da Chad Stahelski) con i suoi momenti slow motion seguaci di un The Grandmaster in versione pop-allucinata e benevolmente grezza. Molto più divertente e coeso del tentativo suicida che fu quel Suicide Squad. Ora c’è una solida base per altri capitoli, che privi di quell’asfissiante controllo da parte degli studios, potrebbero esplodere in altrettanti interessanti spunti, più raffinati, ricercati e soprattutto liberi, così come la sua protagonista.