I canoni narrativi imposti dal biopic sembrano, forse, sfilacciarsi (ne abbiamo parlato in relazione a Piece by Piece), consentendo al genere – probabilmente saturo – di confrontarsi con un presente ricco di immagini che amplificano e reinterpretano il reale. In Better Man (trailer) Robbie Williams è una scimmia in CGI, un uomo mutato da un filtro Instagram perennemente attivo che ne altera le fattezze, dal volto alla fisicità. È il mondo manipolatorio delle immagini social – sempre più spesso compare la dicitura Imagined with AI al lato di alcuni post, ma possiamo tornare più indietro, “al filtro”, il preludio di questa tendenza -, che si intreccia alla scrittura malata e distorta che alimenta la narrativa attorno alle star, costruendo una rappresentazione fittizia del loro racconto o nome o personalità.
Robert. È il nome del cantante britannico. E non lo vediamo mai. C’è sempre Robbie. Un nickname più accattivante, assegnatogli dal suo primo manager durante la formazione della boy band Take That, che, apparentemente, non si allontana molto dal nome vero. Inganna, quindi. Confonde l’identità originale, così come il corpo, con un’altra nuova, che finisce per diventare primaria, sovrastando la base. Rimangono però reminiscenze quasi materiche che disorientano, che si insinuano nella mente “visiva” di Robbie, rendendolo vittima delle ombre di sé, di tutti quei vari personaggi che ha (obbligatoriamente) interpretato. Di fatto, lo ripete spesso: «Non so più chi sono».
Ecco. Better Man parte da un’ottima base teorica. Sembra voler ribaltare provocatoriamente l’impianto costituito dei generi a cui si riferisce, biopic e musical, senza riuscire davvero a scardinarne le imposizioni, restando ancorato ai codici del primo, e sfuggendo più volte, dopo una partenza promettente, dal secondo. Rimane cristallizzato nella storia, in un cerchio perfetto dove regna un (certamente commovente) senso di dolore, fino alla classica risoluzione finale. Il regista Michael Gracey sembra voler osare solo di facciata, senza scavare mai davvero dentro all’idea della maschera-filtro, rendendola pre-testo più che un testo effettivo. Più per sottolineare la diversità del cantante che per analizzare il fenomeno della macchinazione nel mondo dello spettacolo.
Anche quando i conflitti sembrano risolti nel dolce finale, la maschera resta. Non diventa mai un volto reale, quello di Robbie (Robert?) Williams. Che ormai sia troppo tardi per tornare umani? Resta un senso di cosciente frustrazione per chi guarda, nonostante sia stato un bel concerto, nonostante le varie identità siano state sconfitte al live a Knebworth. Ma qualcosa sfugge, e anche se ci siamo emozionati (la danza sullo yacht con Nicole Appleton è il momento più potente e libero, insieme al rapporto di Robbie con la nonna, l’unica che probabilmente lo ancora al vero) questo film resta sì un bel biopic diverso, ma come tutti gli altri.
So do you love me now? Or did I let you down? You said you wanted all my secrets. So I showed you all my demons. Do you love me now?
Al cinema dal 1 gennaio.