Era il settembre del 2013, quando, dopo un’esperienza durata 5 anni, Breaking Bad volgeva al termine con il suo agrodolce e oramai iconico finale di serie. Neanche il tempo di metabolizzare, che Vince Gilligan ripartì circa un anno dopo con Better Call Saul (trailer), destando all’epoca non poche preoccupazioni. Gli spin-off in sé, seppur commercialmente siano indubbie mosse vincenti, non sono molto spesso associabili a scelte artistiche convinte e convincenti, ma più a un pigro tentativo di spremere fino all’ultima goccia una community affezionata. Se a ciò uniamo l’ombra che la serie madre incuteva su questo progetto e i dubbi riguardo al personaggio di Saul Goodman, che nonostante sia stato indubbiamente di rilievo all’interno della serie, non lasciava trasparire uno spessore e uno spazio di manovra tale da dedicargli una storia a sé stante così corposa e duratura. Tornando con la mente ad oggi, freschi del finale, capiamo quanto a volte sia soddisfacente essere smentiti, soprattutto se a farlo è un prodotto di questo calibro.
Nonostante questo e il plauso ricevuto dalla serie, si è da subito notato quanto si sia creata una frattura tra chi ha da subito gridato al capolavoro e chi non si è mai lasciato trasportare dalla storia dell’avvocato, ritenendola noiosa e poco accattivante. È infatti da riconoscere che (soprattutto nelle prime stagioni) il ritmo non sia stato particolarmente spedito, confluendo nella diluizione tipica del linguaggio seriale e ancor di più quindi dello spin-off. Diluizione che di per sé non presuppone un’accezione negativa o positiva a priori, ma determinante nel tracciare quella sottile linea che divide la profonda immersione dello spettatore in una serie da un altrettanto profonda conciliazione del suo sonno. Se però la qualità di messa in scena, di scrittura e di regia è portata avanti a questo livello, diventa difficile notare quella linea e facile pendere da una sola parte. Sia questa che tutte le altre stagioni presentano una qualità a dir poco impressionante; la cura con cui ogni scena, anche la più insignificante, viene presentata è ai limiti del maniacale. Non c’è molto altro da aggiungere, Better Call Saul è visivamente magnifica.
Sarà per un Gilligan sin dall’inizio più maturo e già perfettamente a suo agio con il microcosmo di Albuquerque, ma Better Call Saul non solo sfugge all’enorme ombra di Breaking Bad, bensì attenta pericolosamente e costantemente al trono su cui la serie sedeva da anni indisturbata. Nell’arco di queste 6 stagioni si raccolgono sotto il nome di Saul i background di innumerevoli volti già visti e che confluiscono nell’ascesa e la discesa di Slippin’ Jimmy. Parallelamente, con le vicende di Fring, Mike e il cartello messicano veniamo calati in un preciso e crudo resoconto del “mestiere” del crimine, fino a che questi mondi non collidono irreparabilmente in una drammatica e ultima stagione. Sicuramente la più avvincente, emozionante e dolorosa delle 6, in quanto porta al climax tutti personaggi e le diverse linee narrative meticolosamente narrate nel corso di questi 7 anni. È veramente difficile non apprezzare l’amore con cui vengono approfonditi e impreziositi sia personaggi già noti – come quelli di Saul, Mike e Fring (Bob Odenkirk, Jonathan Banks e Giancarlo Esposito) che nuovi personaggi magistralmente sviluppati – come quelli di Kim, Nacho, Lalo e Howard (Rhea Seehorn, Micheal Mando, Tony Dalton e Patrick Fabian). L’amara storia d’amore tra i due avvocati è narrata con una dolcezza e una complicità a cui raramente si assiste, come raramente si assiste a delle performance attoriali di tale livello.
La serie ha inoltre il merito di essere così dettagliatamente e specificatamente legata alla serie principale tanto da fare il giro ed essere una storia che si autosostiene.. È chiaro che cogliere questi dettagli più o meno evidenti farà la gioia soprattutto di chi è particolarmente familiare con il mondo di Breaking Bad, ma proprio per la minuzia con cui sono disseminati e il suo essere un prequel, non rappresentano le fondamenta su cui si getta la storia e ne permettono un’autonomia narrativa che molti spin-off non possono vantare. Certo è che quando in questa stagione le time-line delle due serie iniziano a fondersi, la correlazione si fa più evidente, ma senza minarne la sua autonomia.
Ciò naturalmente non coincide con un invito a perdersi un capolavoro della serialità, se siete tra quei pochi che non conoscono il nome di Walter White; altro non è che un ennesimo tentativo di elogiare questo secondo viaggio di Vince Gilligan. Unico neo della serie (e in particolare di questa ultima stagione) è il forzato tentativo di dare diversi camei ai protagonisti della serie madre, che spesso non aggiungono molto e rimangono un vano ammiccamento ai fan. Non ha poi sicuramente aiutato la strategia di aver rivelato prima su tutti i social la partecipazione di Bryan Cranston e Aaron Paul, smorzando di molto l’effetto sorpresa che quantomeno poteva generare. Proprio con questi camei in alcuni momenti si avverte la sensazione di essere sbalzati avanti e indietro un po’ troppe volte senza particolari esigenze narrative, disturbando anche un montaggio che mai fino a quel momento aveva mostrato sbavature.
Queste pressoché uniche incertezze riescono a incidere ben poco sullo straordinario lavoro fatto nell’arco di tutte le sue stagioni e la serie, dopo la sua conclusione, si inserisce prepotentemente e definitivamente nell’olimpo del medium seriale, diventandone uno dei suoi capolavori. La recente conferma poi di Gilligan nel voler concludere questo universo narrativo con Better Call Saul è di sollievo, soprattutto nell’ottica di poterlo vede alle prese con un progetto nuovo di zecca.
La serie è interamente disponibile su Netflix, che l’ha diffusa settimanalmente fino al suo finale, uscito il 16 agosto 2022.