Berlino, estate ’42, la recensione: la luce dietro la Resistenza

Berlino, estate '42 recensione film di Andreas Dresen DassCinemag

Il sole di quell’estate del 1942 continua a scaldare i ricordi di Hilde (Liv Lisa Fries) anche al freddo della sua cella. È impossibile dimenticarsene, è stata la più bella della sua vita. La stessa in cui ha conosciuto e sposato Hans (Johannes Hegemann), quella in cui ha finalmente smesso di temere l’amore. Però i nazisti li hanno catturati e poi separati, perché la loro non è una semplice storia d’amore, ma anche di lotta clandestina contro il regime

Berlino, estate ‘42 (trailer), presentato in concorso alla 74° edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, è in primis il racconto di un rapporto sentimentale e solo in seguito una vicenda di resistenza antinazista, quella dei giovani Hilde Rake e Hans Coppi, appartenenti al movimento fuori legge ribattezzato “L’Orchestra Rossa”. L’impostazione narrativa del regista Andreas Dresen e della sceneggiatrice Laila Stieler è infatti piuttosto singolare, in quanto mossa dall’intenzione di «evitare certi cliché della Resistenza, enfatizzando i momenti privati dei personaggi»

Ecco quindi spiegata la scelta di una narrazione che alterna la quotidianità di Hilde in carcere, in attesa del suo bambino e al contempo del suo processo, e i flashback della sua vita precedente, i quali viaggiano parallelamente seguendo un ordine cronologico a ritroso. Se sulla carta l’enfasi sull’intimità dei personaggi a dispetto di un ritratto incentrato sul loro apporto storico potrebbe risultare interessante, questa si traduce purtroppo in un esperimento non del tutto riuscito. La scarsa contestualizzazione e valorizzazione delle azioni rischiose intraprese dalla giovane coppia, unita a una rappresentazione di un rapporto amoroso per lo più superficiale e insapore, finisce per indebolire eccessivamente il processo di immedesimazione con i personaggi, i cui legami costruiti a fatica vengono poi sfilacciati con facilità dalla frammentarietà della narrazione.

Più azzeccata è invece la rappresentazione dei nazisti, che rifugge da quella ormai eccessivamente stereotipata e caricaturale spesso raffigurata nel cinema hollywoodiano. Qui il nazismo si presenta talvolta sotto le mentite spoglie dell’umanità, ad esempio attraverso momenti di cordialità che rendono più complessa l’attribuzione delle colpe agli occhi dello spettatore. Ciononostante la macchina repressiva del nazionalsocialismo finisce sempre per rivelarsi drammaticamente, laddove le parole affabili della quotidianità alla fine vengono soppiantate da quelle austere dei verdetti che decidono la vita o la morte.

La regia di Dresen agisce in simbiosi con la fotografia di Judith Kaufmann per la raffigurazione di un contrasto visivo tra il presente grigio della protagonista e il suo passato luminoso. La macchina da presa pedina Hilde tra i corridoi tetri del carcere, facendo trasparire con efficacia il senso di soffocamento, l’assenza d’aria e di colori che caratterizzano la sua prigionia. Al contrario i flashback brillano prevalentemente di una luce che sembra perpetua, mentre le inquadrature offrono più respiro e dinamismo. 

Il ritmo assai flemmatico del film, forse oltre misura, permette di soffermarsi sull’aspetto di maggiore pregio dell’opera, vale a dire l’interpretazione di Liv Lisa Fries. Quest’ultima, consacratasi definitivamente con la serie Babylon Berlin, non era nuova a storie di Resistenza, avendo già vestito i panni di Sophie Scholl nella serie documentario Donne che hanno fatto la storia del 2012. La sua Hilde è una donna introversa e pacata, dietro il cui silenzio è tuttavia celata una determinazione senza pari. Privata di ogni cosa, ricerca nelle altre prigioniere boccate di vita, finendo per rappresentare lei stessa un faro di speranza alimentato dall’amore indissolubile per il suo bambino.

In sala dal 20 marzo.

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