#Venezia 79: Bentu, la recensione del film di Salvatore Mereu

Bentu

Presentato alla diciannovesima edizione delle Giornate degli Autori presso la settantanovesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Bentu (trailer) di Salvatore Mereu è un’opera desolante su un’umanità completamente sola e scettica verso ogni possibilità di redenzione collettiva. Da un lato Bentu è un’opera etnografica con lo scopo social umanitario di informare e lasciar riflettere lo spettatore sulla realtà contadina sarda e dall’altro si fa testamento spirituale di una generazione anziana ritiratasi ormai da tempo oltre i confini della civiltà. Se Sacro GRA (2013) di Gianfranco Rosi elevava il Gran Raccordo Anulare a nobile strumento di amore e comunione per indagare la tangibile realtà sbandata degli emarginati, il film di Salvatore Mereu erge la campagna a deserto rappresentativo di una solitudine palpabile fin dentro le viscere. Raffaele (Giuseppe Cuccu) è un contadino che, cercando invano di evitare ogni contatto fisico ed emozionale col mondo esterno, attende l’atto sacro di un vento purificatore e vendicativo.

La casa in mattoni è un ventre materno di straordinaria desolazione, colta nel bel mezzo di un paesaggio spaventosamente incontaminato e animato dagli atti punitivi del vento e del nulla cosmico. Il protagonista mangia, beve, aspetta e sembra implodere quando sente un leggerissimo bentu che mai abbastanza alza la paglia dalla sua raccolta di grano. L’unico segno di una civiltà spezzata e illusa dalla speranza di un possibile equilibrio è il messaggero Angelino (Giovanni Porcu), il giovanissimo nipote e bracciante di Raffaele, che sogna di cavalcare l’indomita cavalla del nonno: ella è il simbolo superbo di una dolce e bella libertà. Ad insaporire la minestra fredda e sciapa dell’opera di Mereu vi sono i personaggi invisibili della moglie e del figlio di Raffaele, ovvero quelle anime distanti e critiche che una volta erano l’emblema di un contesto familiare forte. Entrambe queste “presenze” sono sintesi poetica di una delusione intrinseca. Gli stati civili di marito e padre hanno un peso rilevante e logorante solo nell’istante in cui fagocitano il recupero della memoria.

In tal senso Bentu è la tragedia di un uomo rassegnato che, sforzandosi amaramente di dimenticare l’indimenticabile, precipita nel ruolo pietoso dell’illuso. Il realismo documentario del maestro Gianfranco Rosi, recuperato da Salvatore Mereu, sposa così la finzione del cinema propriamente narrativo. Moglie e figlio di Raffaele si trasformano nella magnetica concretizzazione dei conflitti interni al protagonista e, portando avanti la storia, conferiscono dei contorni marcati al disegno tormentato di un uomo anziano evitante e già morto. Se Angelino rappresenta le uniche speranze e mediazioni tra le punitive credenze religiose di Raffaele e l’inclusiva civiltà progressista della Sardegna, la moglie e il figlio del personaggio principale sono la decisiva e laica separazione da un deserto di tradizioni radicali che provoca per forza di cose lo sconforto del vecchio contadino. La scena in cui Angelino legge a Raffaele la lettera del figlio soldato si carica di una tristezza inenarrabile, acuita tanto dal fatto che la prole adulta lavora nel mondo extraordinario quanto dalla prova inattaccabile che quel figlio lontano si esprime in italiano – i personaggi parlano tutto il tempo nella lingua sarda e, perciò, sentire anche solo per poco l’italiano aumenta la gigantesca quota d’estraneità che già contamina il protagonista.

Bentu è esperienza alienante che si carica di un significato biblico ad ogni inquadratura. La visione del film di Salvatore Mereu procura un senso di sofferenza e desolazione castranti, in particolar modo quando arriviamo al finale spiazzante dove il vento la fa da padrone. Più che ad una entità sacra buona e comprensiva, l’ineluttabile bentu somiglia maggiormente al Dio violento e punitore dell’Antico Testamento. Senza il suo soffiare vendicativo non si possono separare i chicchi di grano dalla paglia; pertanto se non c’è la sua azione non può esistere la vita. Anche se tanto atteso e desiderato, il vento deciderà comunque di scacciare via quella libertà che tanto serve all’umanità piegata nel fisico e nello spirito. In questo modo noi, assieme a quello straccio di contadino, saremo ancora e ancora relegati allo stato povero di prigionieri delle nostre stesse ossessioni. Redenzione e perdono rimangono a chilometri e chilometri di distanza all’interno di un film fortemente pessimista e forse anche leggermente moralista.

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