Béla Tarr è sicuramente un regista poco conosciuto e, ad una prima occhiata, particolarmente ostico. Il suo nome rimanda principalmente a pellicole che si caratterizzano per tempi molto dilatati e dalla considerevole durata. Eppure, questi elementi che lo identificano, riguardano solamente la seconda fase del percorso artistico di uno dei più originali registi cinematografici del Novecento. Tutta la sua prima produzione – dall’esordio con Nido Familiare nel 1977 a Rapporti prefabbricati del 1982 – si distingue per un taglio nettamente documentaristico, con atmosfere volte a rendere la frenesia, la discontinuità e i problemi di vita nella metropoli. Niente a che vedere con le vaste e misere pianure rurali di Satantanto (1994), i silenziosi porti de L’uomo di Londra (2007)avvolti dalla nebbia o ancora, con le case erette nel nulla in Il cavallo di Torino (2011).
Eppure, nonostante la differenza tra questi due macrogruppi di pellicole sia evidente fin dal primo sguardo, questi film segnano l’evolversi di un percorso artistico e poetico nella riflessione sull’uomo condotta da Tarr – si, perché al centro di tutto c’è sempre l’uomo – assolutamente coerente e precisa. In questo lavoro, nel decimo anniversario del ritiro dalle scene, ciò che si cercherà di fare sarà tracciare una linea di questa continuità di riflessione sull’uomo, seguendo in che modo Tarr ragioni su due grandi temi che attraversano e si sviluppano nel corso di tutta la sua opera: la casa e il tempo. Si tratta di due aspetti che nelle sue pellicole il regista mette chiaramente in scena, ma che nascondono anche degli spunti di riflessione più profondi, e che possono aiutare (ed incoraggiare) una più larga fetta di pubblico ad avvicinarsi all’opera di un regista così singolare ed irripetibile.
1. Una prima trilogia
Béla Tarr nasce a Pécs, una città nel sud dell’Ungheria, il 21 luglio 1955. Per il suo quattordicesimo compleanno il padre gli regala una cinepresa 8mm, a sedici anni già realizza i suoi primi cortometraggi documentari. Ad animare questa sua inclinazione sono le frequentazioni di ambienti di sinistra radicale molto attenti alla situazione della classe operaia. Con la realizzazione del suo primo cortometraggio ufficiale, Lavoratori stranieri, nel quale si indaga la situazione degli operai che chiedono di poter andare a lavorare all’estero per via della mancanza di lavoro in Ungheria, gli sarà preclusa la possibilità di frequentare qualunque università. Successivamente viene a contatto con la Scuola di Budapest, movimento di rinnovamento cinematografico attivo negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta che, grazie all’autonomia di cui godeva lo Studio Béla Balázs, Tarr riesce a girare il suo film d’esordio Nido familiare, con attori non professionisti che inscenano una storia di disagio abitativo.
Nido familiare, insieme ai successivi L’outsider e Rapporti prefabbricati va ad iniziare il percorso poetico del regista, che affronta in queste tre pellicole (identificabili come un’ideale trilogia), il tema della ricerca di una casa, sia ad un livello “narrativo” che metaforico. Cominciamo col chiarire le virgolette – necessarie! – utilizzate per il termine narrativo. In queste prime pellicole, Tarr parrebbe cercare dei tranche de vie grezzi, la vita colta nella sua quotidianità. Nel fare questo, si ritrova a smontare la verticalizzazione narrativa per costruire << […] un universo cinematografico in cui regna l’orizzontalità, la stagnazione, l’assenza di un rassicurante cammino lineare in avanti>>[1] come la descrive Marco Grosoli nel suo volume monografico dedicato al regista. L’istituzione del racconto, inteso come principio di autorità che regola il tempo, ha a che fare con la patrilinearità. Si tratta di un principio paterno, e queste pellicole sono zeppe di padri inetti. In questa disfatta del Padre si vede chiaramente una disfatta del Racconto; quella tensione che tende verso uno scopo che bisogna progressivamente raggiungere. Sono molte le scene che iniziano ad essere mostrate quando l’azione descritta al loro interno è già cominciata, e che finiscono prima che si sia riusciti a giungere ad una soluzione. Si tratta di uno sforzo di <<de-drammatizzazione>>[2] assoluto.
Nessuno dei personaggi può essere definito come agente, sono passivi, in balia degli eventi davanti ai quali non possono che lamentarsi tentando d’imboccare una direzione (quella tensione progressiva sulla quale il racconto classico si sviluppa) ma senza risultato. Laci e Irén, i protagonisti di Nido familiare, cercano un appartamento in cui andare a vivere per uscire da quello della famiglia di lui, e soprattutto, per allontanarsi dal padre di Laci; un padre viscido e lamentoso che sa solo criticare l’operato di suo figlio e di Irén nel crescere la loro bambina e la loro incapacità di risparmiare. La pellicola si conclude con un nulla di fatto in cui i due protagonisti, separatesi dopo l’ennesima discussione, si lanciano in un monologo in cui l’uno contraddice quello che afferma l’altro, auspicando una riconciliazione che molto probabilmente non ci sarà. Nel successivo L’outsider (1980) si segue il violinista András nel suo muoversi completamente allo sbaraglio in un’anonima città ungherese. Anche in questo secondo film, si ha la negazione di ogni <<prospettiva narrativamente orientata in avanti>>[3]: András si muove senza andare da nessuna parte, e noi con lui. Quando apparirà suo fratello sembrerà quasi che il protagonista non gli dia il minimo peso, come se anche lui fosse un piccolo elemento insignificante e senza futuro in tutto quello scorrere disordinato che è la sua vita. Anche in questo caso, una casa alla quale fare ritorno non c’è, e neanche un padre dal quale andare. Rapporti prefabbricati (1982) è un film leggermente diverso. La crisi di una coppia con bambini: i sogni di benessere di Judith, che vorrebbe dedicarsi allo shopping e al divertimento, contrapposti alla passività di suo marito Robi, intento solo a guardare la televisione e a bere birra. In questo caso ci troviamo davanti ad una storia in cui una casa, fisicamente, c’è. Ma ancora niente padre. Robi è un padre profondamente fallimentare, che esce ogni volta che può e quando si trova in compagnia della sua famiglia non se ne cura minimamente. Questo mette in discussione la casa come luogo in cui tornare, perché al suo interno non c’è confronto, non c’è la possibilità di crescere come individui (altro aspetto che si caratterizza per una tensione progressiva in avanti). Infatti, la pellicola ha una struttura circolare, che non si sviluppa, come non si sviluppano i suoi personaggi che rimangono incastrati in quei “rapporti prefabbricati” fatti con lo stampino e che impediscono il nascere di ogni possibile aspetto d’individualità personale. Per dirla in estrema sintesi: in Nido familiare abbiamo la ricerca di una casa, luogo al quale aspirare per poter cominciare a vivere la propria vita; in L’outsider assistiamo al vagabondare senza meta; infine, in Rapporti prefabbricati si giunge finalmente ad una casa, che si rivela, però, un luogo opprimente e di crisi che aliena gli individui che la abitano.
2. La crisi della casa
Questa messa in crisi della casa come luogo al quale un tempo si aspirava ci fa da ponte per Almanacco d’autunno (1984). Si tratta, insieme a Perdizione (1988), di una pellicola di transito, in cui il vecchio stile registico di Tarr e tutto il comparto stilistico iniziano a cambiare. La pellicola – l’unica a colori di tutta la filmografia di tarriana insieme a L’outsider – salta subito all’occhio per la sua messa in scena fortemente teatrale. L’intera vicenda ha luogo in un unico appartamento, molto grande e suntuoso e senza padri. In questo caso una storia che procede in avanti c’è ed è sostenuta da lunghe sequenze di dialogo che svelano ulteriormente l’impianto teatrale dell’operazione, sostenute con l’ausilio del long take. La convivenza nell’appartamento, per quanto grande, costringe i personaggi ad un confronto forzato ma è anche il posto dove nascono vari tipi di relazioni tra essi. Non a caso sarà descritto – l’appartamento – come una “condizione necessaria” da uno dei personaggi, Anna, per la sua relazione con un altro personaggio, Miklós. Il grande elemento d’interesse è la scenografia, volutamente barocca e decadente, strabordante di decorazioni superflue e oggetti fuori posto, un grande trionfo dell’artificio. Ma perché porre l’accento su questo punto? Lo scenografo del film è l’artista ungherese Gyula Pauer – da questo film in poi sarà lo scenografo di tutte le pellicole di Béla Tarr -, che negli anni ’70 stilò il Manifesto PSEUDO che proponeva un nuovo modo di pensare e di realizzare la scultura, due aspetti sui quali vale la pena dilungarsi un attimo per comprendere meglio come si leghi al nostro discorso.
Il termine “PSEUDO” potrebbe avere come significato: falso, ingannevole, irreale. La scultura PSEUDO non sembra essere quella che è in realtà la sua forma “genuina”. La scultura PSEUDO non riguarda il mezzo della scultura in sé, ma piuttosto le circostanze del mezzo della scultura. PSEUDO crea in modo fuorviante l’impressione della superficie di un’altra scultura su altre forme, dando l’immagine di due sculture contemporaneamente. Questo viene fatto per mezzo di un processo fotografico. Sulla superficie della scultura appare la superficie di un’altra scultura. La scultura PSEUDO ritrae così la realtà e l’illusione, il materiale e l’immateriale, sullo stesso oggetto allo stesso tempo. Le forme esatte sono distinguibili, ma la percezione è sempre ostacolata dall’immagine illusoria. La qualità PSEUDO raffigura la natura manipolata della scultura come opera d’arte plastica. Questa natura manipolata può caratterizzare l’esistenza dell’arte in generale. La natura manipolata della scultura PSEUDO, sia nella sua forma che nella sua tecnica, è solo un simbolo della natura esistenzialmente manipolata dell’arte plastica. La scultura PSEUDO è una scultura che si rappresenta e mostra come una scultura manipolata, dimostrando così l’esistenza dello stato di manipolazione. Dunque, non solo il trionfo dell’artificio, ma anche il mostrarlo apertamente, riconoscerlo come istanza fondativa dell’ambiente. La realtà è fuori, l’interno è artificiale, bugiardo, e non c’è possibilità di scambio tra queste due dimensioni. E se la casa è ormai palesemente artificiosa, e viene, anzi, vista come un luogo di isolazionismo ed ostile nel quale non ci si può fidare di nessuno, ciò che resta all’uomo è il tempo.
Una maggiore attenzione alla dimensione temporale Tarr inizia a mostrarla a partire da questo film, in particolare – dato che si tratta di una pellicola dall’impostazione teatrale – con l’utilizzo del già citato long take e della struttura narrativa. Altro aspetto temporale che si inizia a considerare è quello della circolarità, sembra che qualcosa cambi ma poi tutto torna come prima e il cerchio si chiude per tornare alla situazione di partenza.
La pellicola successiva di Béla Tarr, Perdizione (1988), è la storia di Karrer, un uomo che passa le sue giornate a fissare la teleferica dalla finestra di casa sua e ad ubriacarsi al bar. Quando il gestore del locale gli propone un affare illegale, Karrer accetta ma con l’intento di passare il compito al marito di Vali, la cantante di cui è innamorato, con l’obiettivo di far allontanare il rivale abbastanza a lungo per corteggiare la donna. Il film segna l’inizio della collaborazione con lo scrittore László Krasznahorkai che da questo momento sceneggerà tutti i film del regista. Anche questa seconda opera di transizione ha una storia ridotta all’osso, dove i momenti emotivamente più intensi vengono relegati lontani dalla cinepresa o non vengono mostrati affatto. E come nelle pellicole precedenti, tutto ciò che può andare sotto il nome di “narrativo” è praticamente inesistente. Le linee rette che partono e arrivano ad un qualcosa qui non hanno corso. Come osserva Grosoli, questa questione è esaustivamente evidenziata già nella primissima immagine del film: <<[…] le benne di una teleferica, le cui traiettorie, naturalmente, sembrano proseguire in senso lineare, salvo poi percorrere sempre lo stesso tracciato circolare>>[4]. Ad osservare questo ciclo perpetuo c’è Karrer, che ci viene subito presentato come un personaggio contemplativo. Osserva la teleferica dalla finestra del suo appartamento, ma nella pellicola lo spazio abitativo non riveste più alcuna funzione, c’è solo la finestra che deve essere intesa come foro dal quale spiare il mondo con diffidenza (da questo momento quello della finestra sarà un concetto che tornerà più volte nei film successivi di Tarr).
Questo continuo atto dell’osservare diventa il ‘perno estetico’ del film che condensa il tempo in un blocco unico permettendo in questo modo di far affiorare una temporalità altra, non narrativa. Ma cos’è che Karrer contempla? Luoghi che emanano una sensazione di fine assoluta, che suggeriscono la fine di ogni narrazione, e anche la fine di ogni tempo. L’unico elemento che attraversa questa terra desolata sono le poche persone che si dirigono da un palazzo all’altro, o che attraverso le vecchie strade fangose per andare e bere qualcosa. Ma si tratta di persone senza meta, che si muovono quasi per inerzia e che rispondono più a degli istinti animali che a pensieri veri e propri. Nel finale, vedremo Karrer che, dopo aver denunciato Vali e il marito alla polizia, si aggira tra pozzanghere e montagne di rifiuti avvolti nel fango sotto la pioggia scrosciante. Incontrerà un cane che gli abbaierà contro, e di tutta risposta inizierà ad abbagliargli contro a sua volta, mettendosi a quattro zampe, ringhiando. Ogni senso di umanità è perduto. Dopo aver abbandonato la casa – segno, comunque, di civiltà – e non aver nessun obiettivo da perseguire seguendo una linearità temporale chiara, all’uomo non resta che vagare tra desolazione e abbandono come un randagio, regredendo ad uno stato animalesco, combattendo per la sopravvivenza rinnegando i propri simili.
3. Verso la distruzione del tempo
Sei anni dopo, Tarr realizzerà il suo film più famoso: Satantango (1994) (trailer). Con i suoi 450 minuti di durata (sette ore e mezza), si tratta dell’opera più grande, ambiziosa e complessa di tutta la sua filmografia. La storia è basata sul romanzo omonimo di László Krasznahorkai e tratta di una comunità di contadini – in un imprecisato periodo storico ma che si può considerare successivo al crollo del muro di Berlino – che cerca di riscattarsi dalla sua condizione sociale. Il film è l’apoteosi di tutti gli aspetti dell’opera di Béla Tarr di cui abbiamo discusso fino ad ora. Non solo l’assenza della casa, il tempo, la miseria dell’uomo vengono estremizzati fino alle estreme conseguenze, ma si aggiungono altri spunti discorsivi che superano quello che fino ad ora Tarr ci ha detto sull’uomo, per portarlo ad un livello successivo. Come detto poco prima, possiamo immaginare il periodo storico di Satantango, ed è veramente difficile sfuggire alla tentazione di vederci un’allegoria socio-politica dell’Ungheria dopo il disfacimento dell’URSS, ma fermarsi a questo livello di lettura sarebbe estremamente riduttivo. I contadini che abitano Satantango vivono nella più completa assenza di una prospettiva in avanti; di fatto si tratta di una storia alla fine della Storia. Ma qual è la pista interpretativa da percorrere? Per rispondere è necessaria una digressione.
Per analizzare la pellicola, Marco Grosoli parte da quanto afferma Boris Groys nel suo libro Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale. Lo studioso tedesco afferma che Stalin, piaccia o meno, è stato l’artista definitivo. Allontanandosi da ogni giudizio di valore possibile e attenendosi alla realtà dei fatti – e andando contro la vulgata che vuole che le spinte emancipative della rivoluzione del 1917, parallele alle spinte avanguardiste dell’epoca, siano state tradite da Stalin – Groys sostiene, invece, che quest’ultima <<non fece che portare a corretto compimento le premesse di quelle>>[5]. In contrapposizione alla “tabula rasa” che si auspicavano artisti d’avanguardia come Kazimir Malevich, atta a costruire una realtà nuova, il 1917 li mise di fronte ad una tabula rasa vera e propria. Stalin fu l’<<incontrastato artista che plasma la società a somiglianza della sua immaginazione>>[6] realizzando in todo quello che l’avanguardia si auspicava: la fusione tra politica e arte, dove la prima è l’unica sorgente creatrice.
Questo fu dichiarato come il migliore, e anche l’ultimo, dei mondi possibili, identificato come un’utopia giunta a compimento, e che ha pagato il costo di escludere l’utopia stessa dal proprio orizzonte. Comportando, come detto poco prima, la fine della Storia. Nel Manifesto del suprematismo, Malivich afferma che: <<il valore stabile, autentico di un’opera d’arte […] consiste esclusivamente nella sensibilità espressiva>>[7]. La sensibilità è il tramite decisivo attraverso il quale l’arte arriva alla rappresentazione senza oggetti al suo suprematismo, appunto. Il nuovo mondo che ci si auspica di riuscire a costruire è il mondo della sensibilità. <<I contorni dell’oggettività sprofondano sempre più a ogni passo, e in fine il mondo dei concetti oggettivi […] diventa invisibile. Non ci sono più “immagini di realtà”, non ci sono più rappresentazioni ideali, non c’è nient’altro che il deserto!>>[8].
Ed è proprio con il termine “deserto” che fu descritta l’opera fondativa di tutta la corrente suprematista, ossia il Quadrato nero che Malivich realizzò nel 1915; in cui il nulla infinito dell’opera coincide con le potenzialità di ogni possibile esistenza. L’assenza di oggetti rappresentati nel quadrato nero non è tale in sé, ma è il fatto immediato della sensibilità divenuta forma. Si è, dunque, tesi verso un superamento dell’imitazione della realtà e, di conseguenza, anche dello spazio tridimensionale e della prospettiva centrale. Satantango inizia inquadrando frontalmente, dall’interno di casa, la finestra dei coniugi Schmidt, e finisce inquadrando un’altra finestra, quella della casa del dottore, il quale prende alcune assi di legno e le inchioda una ad una davanti ai vetri, oscurando progressivamente la stanza fino al nero totale. L’ultima inquadratura è trasformata nel quadrato nero di Malevich. Il dottore rinuncia, in linea col suprematismo, all’osservazione della realtà esteriore.
Dal punto di vista narrativo, la pellicola comincia a mettere in atto la disfatta temporale del racconto. Se riguardo le prime pellicole abbiamo parlato di un tempo stagnate, fermo, e che negasse ogni possibile progressione in avanti, da Satantango è possibile osservare un ripiegamento del tempo su sé stesso. Il film è diviso in dodici capitoli e segue lo schema (suggerito dal titolo) del tango andando cronologicamente sei parti (o passi) avanti e sei indietro, almeno per quanto riguarda la prima metà. Questo porta lo spettatore ad assistere più volte, da punti di vista differenti, al medesimo evento attraverso l’ottica di più personaggi. Quindi le impressioni di progressività narrativa e temporale vengono negate al cambio di ogni capitolo, creando in questo modo un circuito che si ripete sempre uguale ma con piccole differenze (i vari punti di vista), che sono la negazione di un punto di vista monocentrico (identificabile con la finestra). Questa negazione sarà realizzata del dottore alla fine del film con un profondo atto di negatività: un altro aspetto fondamentale che Tarr tratta nella pellicola, e che può essere descritto come un “modo attraverso il quale si prendono le distanze dalle illusioni dell’esistenza”. Quindi cosa resta alla fine di questa Storia che è anche la storia di una comunità di persone? Il nulla del buio, dello sguardo negato attraverso lo sbarramento della finestra? In realtà no. Perché il nulla non è il niente, ma consiste in <<uno spazio privo di coordinate fisse e quindi non definibile>>[9], dove tutto è ancora possibile perché non è ancora niente, quindi, potenzialmente è tutto.
Aprendo una piccola parentesi, è interessante leggere questo discorso come un punto di contatto con un film di dieci anni antecedente e apparentemente distante da Tarr come La storia infinita; nel momento finale (ma anche iniziale) del film in cui l’Infanta Imperatrice di Fantàsia dice a Bastian che: <<All’inizio è sempre buio>>, proprio quando tutto il mondo, e la visione dello spettatore con esso, è stato invaso dal Nulla che impedisce ogni possibilità d’immaginare un futuro, un tempo che ci proietti in avanti. Lo stesso nulla-potenziale che avvolge la visione dello spettatore di Satantango alla fine-inizio della pellicola. Ma, se ne La storia infinità si giunge ad un finale, e quindi ad uno sviluppo concreto di una potenzialità, in Satantango questo non avviene, perché lo sbarramento della finestra e il conseguente buio che ne deriva è anche il buio che vediamo all’inizio del film, dal quale sorge la finestra degli Schmidt e ci rimanda ancora in quella circolarità senza fine. Dalla quale, forse, è però possibile uscire grazie a quell’atto di negatività che ognuno di noi dovrebbe riuscire a realizzare.
Successivamente Béla Tarr gira Le armonie di Werckmeister (2000) anche questo un adattamento di un libro di Krasznahorkai, Melancolia della resistenza. Si tratta di una pellicola molto vicina a Satantango e che può essere considerata come un ideale prequel. Il film segue logiche più classicamente narrative rispetto alla pellicola precedente, avendo un solo protagonista e una situazione inziale che va evolvendosi verso un finale. Il film inizia con János Valuska, un giovane fattorino di giornali, che dirige un ballo con gli ubriachi frequentatori di un bar. György, un vecchio amico di János, è un compositore e uno degli intellettuali del villaggio: egli osserva l’imperfezione e il compromesso della scala musicale (come definita da Andreas Werckmeister) e propone alcune modifiche alla scala per renderla più armoniosa. Fa la sua comparsa un circo costituito esclusivamente da due attrazioni: un principe e una balena. La presenza della balena e del principe solleva le masse, ma la loro disumanità sembra quasi normale e naturale. Dopo la ribellione, János trova il diario di un rivoltoso, che evidenzia come loro stessi non sapessero per cosa fossero arrabbiati. János abbandona la città, ma viene intercettato e rinchiuso in un istituto per malati mentali. György comunica a János che, qualora venisse rilasciato dall’istituto mentale, potranno vivere insieme nel suo capanno. György afferma anche di aver riaccordato il suo strumento in modo tale che ora sia uguale a tutti gli altri, evidenziando una capitolazione personale, l’abbandono delle speranze di riforma. Il film si conclude con György che guarda direttamente nell’occhio della balena, per poi allontanarsi. L’enorme carcassa dell’animale è avvolta dalla nebbia.
Centrale nel nostro discorso è la balena. L’enorme cetaceo è esposto all’interno di un grande cargo come un pezzo da museo, immobile ed abbagliante. Tutto il suo potenziale estetico nasce dal fatto di essere un oggetto staccato da quella che è la sua funzionalità pratica, dunque, trattandosi di un essere vivente, dalla vita. Entriamo in un’ottica, quindi, nella quale bisogna pensare il museo – luogo d’esposizione degli oggetti strappati alle loro funzionalità – come <<l’imbalsamazione di ciò che è virtualmente morto>>[10]. Ma non solo. Essendo un oggetto d’esposizione strappato alla vita, e dunque allo scorrere del tempo, la balena attesta anche la tendenza moderna della “rivoluzione permanente”. Vuol dire che tutto cambia ad una tale velocità che non si può stare più dietro a niente, e siamo paradossalmente davanti ad una perpetua rovina. Un perpetuo progresso che nasconde una perpetua morte.
Ed in questa esistenza in cui tutto è già morto nel momento in cui diventa presente, può tornarci ancora utile Malevich quando afferma che: <<l’immagine che sopravvive all’opera della distruzione è l’immagine della distruzione>>[11]. Ecco, la balena esposta come un pezzo da museo è esattamente questo, un’immagine di distruzione che sopravvive alla distruzione stessa. Non si tratta di seguire l’onda del progresso creatore e distruttore, ma di trovare l’indistruttibile immagine della distruzione. Le immagini di distruzione sono destinate a non essere distrutte; quindi, a continuare a rappresentare quella distruzione. La balena morta è fuori dal tempo perché ha superato la intrinseca caducità incontro alla quale andiamo tutti, ed è diventata una rappresentazione atemporale. Dunque, la distruzione non è infinita, perché la sua immagine le sopravvive, ne è il limite massimo. Tale immagine, la balena, è ciò che affascina János, il quale, viene risucchiato nel vortice di coloro che, insensibili a questa fascinazione, la scambiano per un’indicazione da mettere in pratica. Perché si sa, è inutile proferire un discorso di verità e consapevolezza se le persone che abbiamo davanti non hanno la sensibilità, o la volontà, necessarie neanche per cercare di comprendere che cosa stiamo dicendo.
Le armonie di Werckmeister è, escludendo il successivo L’uomo di Londra, l’opera di Béla Tarr più vicina ad essere considerata canonicamente narrativa. Rispetto alle altre opere, c’è un senso molto netto di progressione: viene presentata una situazione inziale che, attraverso una concatenazione di cambiamenti, alla fine viene modificata. Ma questa narrazione, questo tempo progressivo, è idealmente l’ultimo prima che si arrivi al collasso definitivo, prima che il tempo di scarto tra il presente di un evento ed il suo diventare immediatamente “pezzo da museo” (immagine di distruzione) diventi talmente minimo da trasformare tutto in un paradossale ciclo d’immobilità che conclude la Storia e tutte le storie che al suo interno possono essere raccontate. Si tratta dell’ultimo umano tentativo di perseguimento, e tentata realizzazione, di un fine prima che si arrivi alla struttura circolare e senza uscita e ai contadini di Satantango. Tarr ci dice di tenere dentro di noi un’immagine di distruzione quando guardiamo il mondo, essere consapevoli davanti alle cose <<della loro intrinseca impossibilità a perdurare così come sono>>[12], e che ciò significa <<predisporsi attivamente al mutamento>>[13], per poter vivere con maggiore consapevolezza.
Tratto dall’omonimo romanzo di Georges Simenon, L’uomo di Londra (2007) è il film decisamente meno riuscito dell’intera filmografia tarriana. La storia parla di Maloin, un uomo che lavora al porto e che durante una pigra sera, dall’alto della sua torre d’osservazione, assiste ad un omicidio. Dopo che l’omicida si allontana, Maloin si avvicina per recuperare una valigetta persa da uno dei due contendenti, all’interno della quale trova dei soldi. Da quel momento, Maloin inizierà ad essere pedinato da uno sconosciuto e ad entrare in paranoia per il denaro. Nel finale, l’assassino che abbiamo visto all’inizio del film (dopo aver scoperto che si tratta del pedinatore di Maloin) sarà ucciso dal nostro protagonista, che andrà subito a costituirsi dal commissario che segue il caso. Ma questi lo liquiderà, insieme alla vedova dell’assassino, e li corromperà con dei soldi della valigetta.
Con tutta probabilità, si tratta dell’unica pellicola di Tarr imputabile di manierismo. I tempi sono sì dilatati, ma in maniera del tutto ingiustificata, e questo fatto viene immediatamente percepito dallo spettatore. I personaggi non vengono catturati nel corso delle loro giornate nei bar ma si mettono palesemente in posa e la mantengono per secondi, o addirittura minuti, interminabili, tradendo la pochezza sotto il fronte della scrittura. Infatti, nonostante alla sceneggiatura ci sia lo stesso Tarr e l’ormai fidato Krasznahorkai, sembra che i due si limitino semplicemente a tagliare dove ci sia bisogno per adattare il racconto alla resa cinematografica. E a nulla serve la presenza di una grande attrice internazionale come Tilda Swinton, nel ruolo della moglie di Maloin, per risollevare le sorti della pellicola. Tarr semplicemente non la utilizza. La durata temporale delle inquadrature è estenuante e tradisce quella che sembra un’insicurezza su cosa si vuole e dire e dove si vuole andare a parare per dirlo. Il film è palesemente il figlio di un lungo travaglio produttivo che non ha giovato alla salute del risultato finale, e questo è un vero peccato; sarebbe stato sicuramente interessante vedere Tarr alle prese con l’adattamento di un libro che non fosse del connazionale Krasznahorkai, ma di uno scrittore internazionale come Simenon, con il quale si sono cimentati cineasti del calibro di Jean Renoir, Jean-Pierre Melville, Marcel Carné e Claude Chabrol.
4. Un attimo prima della fine
<<Faccio un film sulla fine del mondo, e smetto>>[14], così Béla Tarr annuncia quello che per ora è il suo ultimo film, Il cavallo di Torino (2011) vincitore dell’Orso d’argento, gran premio della giuria alla 61ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino. La pellicola è ispirata a un episodio che ha profondamente segnato la vita del filosofo Friedrich Nietzsche, e probabilmente anche la fine della sua carriera di pensatore. Il 3 gennaio 1889, a Torino, Nietzsche si gettò, disperato, al collo di un cavallo brutalizzato dal suo cocchiere, poi perse conoscenza. Dopo questo episodio, che funge da prologo del film, il filosofo non scrisse più e sprofondò nella follia senza proferire parola. Su queste basi, il film racconta la storia del cocchiere, di sua figlia e del cavallo. L’ultima pellicola di Tarr tratta esattamente di questo, della fine del mondo e del tempo, tratta di ciò che succede dopo che si è giunti alla fine della Storia e di tutte le storie.
Si arriva alla definitiva vittoria sulla narrazione e sulla trama perché qui, di fatto, una trama non c’è. Il cavallo di Torino si sviluppa in sei giorni, quasi sempre uguali, della vita del cocchiere e della figlia, probabilmente gli ultimi sei giorni. Non c’è storia ma solo ripetizione, in un loop sempre uguale (tranne alcune piccole differenze) che potrebbe di fatto essere lo stesso giorno visto da vari punti di vista. L’unica cosa che progredisce è una graduale degenerazione di tutto: prima sparisce il rumore dei tarli (uditi dal cocchiere negli ultimi quarantotto anni), il cavallo smette di camminare, poi di mangiare, l’acqua del pozzo finisce misteriosamente, le candele non si accendono più. Ed infinite, tutto cade in una improvvisa e totale oscurità. Se Satantango era una struttura temporale circolare dalla quale non era possibile uscire, Il cavallo di Torino è quella che Grosoli definisce una <<anti-Genesi>> durante la quale tutto ciò che esiste si esaurisce gradualmente fino al giungere del buio. Ma non si tratta di un’apocalisse.
Nel suo Il tempo che resta, commentando la Lettera ai Romani di San Paolo, Giorgio Agamben pone una differenza tra quelli che sono l’apocalittico e l’apostolo (su quest’ultimo torneremo a breve). Agamben afferma che <<L’apocalittico si situa nell’ultimo giorno, nel giorno della collera: egli vede compiersi la fine e descrive ciò che vede>>[15]. Questo nel film non avviene. Nonostante assistiamo alla disgregazione di tutto, Tarr non ci mostra la vera fine ma solo il processo che ci conduce ad essa, perché alla fine del film vediamo i protagonisti che sono ancora vivi. Ciò a cui assistiamo, riprendendo Agamben, non riguarda l’apocalittico ma l’apostolo, <<messianico>> è il termine che Agamben utilizza. Cosa vuol dire questo? Semplificando, possiamo individuare la differenza tra questi due aspetti: il messianico non è la fine del mondo, ma il tempo della fine. <<Quel che interessa l’apostolo, non è l’ultimo giorno, non è l’istante in cui il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e comincia a finire o, se volete, il tempo che resta tra il tempo e la sua fine>>[16]. Quindi questo “tempo messianico” è un tempo di scarto, è <<il tempo che il tempo ci mette per finire>>[17].
Ma quand’è che il tempo comincia a finire? Stando a quanto non ci viene mostrato, ma solo riferito a parole, nel film l’evento che dà inizio all’inizio della fine del tempo è il buttarsi disperato al collo del cavallo da parte di Nietzsche. Non bisogna dimenticare che il filosofo è l’annunciatore della morte di Dio, l’evento definitivo per eccellenza. In questo senso, Grosoli legge Nietzsche come l’anti-messia, che però porta comunque un messaggio, anche se di distruzione anziché d’amore. Quindi l’evento che da inizio al tempo messianico è già avvenuto, il tempo ha già incominciato a finire, e quello che Tarr ci mostra è lo scarto (i sei giorni) che conduce all’apocalittico – la vera fine, il settimo giorno – senza, però, mostrarcelo, fermandosi un attimo prima. In questo senso Tarr è messianico e non apocalittico. Mostrare il tempo della fine, e non la vera fine, permette allo spettatore di riflettere su quella che è stata la vita fino a quel momento, prima che la figura del mondo passi. Si tratta di un invito molto simile a quello di San Paolo fa in un’altra sua lettera, la prima ai Corinzi, nella quale invita le persone a vivere “come se non”, senza paure o pensieri perché l’evento è stato annunciato, ed è prossimo al compimento.
Ma allora, di fronte a questa fine imminente e già annunciata, è possibile individuare una qualche speranza? Si, perché al di là di ciò che possa sembrare, Tarr non odia l’uomo, anzi, gli ultimi che mette in scena sono sempre visti con grande rispetto perché, anche se vili, sono pur sempre uomini davanti alla fine, un evento sempre più grande di loro. E il punto di partenza per individuare questa speranza ce lo fornisce Agamben quando parla del concetto paolino di “Vocazione e revocazione”: << La vocazione chiama a nulla e verso nessun luogo: per questo essa può coincidere con la condizione fittizia in cui ciascuno si trova chiamato; ma, proprio per questo, essa la revoca da cima a fondo. […] Che cos’è, infatti, una vocazione, se non la revocazione di ogni concreta vocazione fittizia? […] la vocazione chiama la vocazione stessa […], la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa>>[18].
Detta più semplicemente, si tratta dello spogliarsi di ogni finzione che ci portiamo addosso per arrivare alla nostra vera essenza. Anche San Paolo seguiva la vocazione della persecuzione dei cristiani, fino a quando non è stato fulminato sulla via di Damasco, scoprendo così la sua vera vocazione, e revocando di conseguenza la sua vocazione fittizia, nullificandola. E quando è possibile tutto ciò? Ne Il cavallo di Torino, questa nullificazione si mostra possibile in ognuna delle piccole differenze che Tarr ci mostra nello scorrere dei giorni altrimenti tutti uguali. La possibilità di un cambiamento, o di una qualche salvezza, è già qui con noi, nel quotidiano, non c’è bisogno di aspettare la fine definitiva di tutto per coglierla. Si tratta solo di approcciarsi agli eventi con un’ottica differente, pronti ad individuare l’inaspettato, la via che si distingue dalle altre tutte uguali – ricongiungere qualcosa che è in atto con la propria potenza – e decidere di imboccarla.
Quindi questo è stato, ed è, il cinema di Béla Tarr. Dietro le mura di una tanto agognata abitazione si nasconde l’orrore dell’alienazione e di rapporti insinceri, mentre di fronte alla fine imminente – sotto tutte le sue forme pensabili– è possibile intravedere una qualche speranza che ci spinga a guardarci attorno con occhi nuovi. Tra atti di negatività e immagini di distruzione, rapporti realizzati in serie e incapacità di perseguire un fine, Béla Tarr ha sempre offerto la sua originale (e solo apparentemente pessimistica) visione del mondo; dalla quale l’insegnamento maggiore che possiamo trarre è il fatto che alla fine di tutto siamo uomini, fallibili e molto lontani dall’ideale. Ma non per questo dobbiamo rinunciare alla ricerca di una direzione, ad un mondo che potrà veramente essere nuovo solo a partire dal modo in cui lo guarderemo.
NOTE
[1] GROSOLI M., Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, Bébert Edizioni, 2015, pp. 32-33.
[2] Ivi., p. 34.
[3] Ivi., p. 38.
[4] Ivi., p. 63.
[5] Ivi., p. 84.
[6] Ibidem.
[7] DE MICHELI M., Suprematismo, in Le avanguardie artistiche del Novecento, La Feltrinelli, 2019, p. 389.
[8] Ivi., p. 390.
[9] GROSOLI M., Armonie contro il giorno, p. 126.
[10] Ivi., p. 159.
[11] Ivi., p. 161 (corsivo mio).
[12] Ivi., p. 183.
[13] Ibidem.
[14] L’affermazione è stata rilasciata da Béla Tarr ad un giornale francese nel 2008, un anno dopo la disastrosa presentazione de L’uomo di Londra alla 60ª edizione del Festival di Cannes.
[15] AGAMBEN G., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, 2000, p. 62.
[16] Ivi., p. 63 (corsivo mio).
[17] Ivi., p. 67.
[18] Ivi., p. 29.
BIBLIOGRAFIA
• AGAMBEN G., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, 2000.
• BALÁZS B., L’uomo visibile, Lindau, 2020.
• DE MICHELI M., Le avanguardie artistiche del Novecento, La Feltrinelli, 2019.
• GROSOLI M., Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, Bébert Edizioni, 2015.