Potente, intimo, struggente. Beautiful Boy (qui il trailer) non è solo un film che parla di droga. È una testimonianza, fuori dal comune, sulla tossicodipendenza. Un punto di vista insolito che si sposta alternativamente da chi le droghe le usa a chi, inevitabilmente, ne subisce comunque in qualche modo gli effetti devastanti. Tratto dai due best seller autobiografici scritti dagli Sheff (del padre David “Beautiful boy: A father’s journey through his son’s addiction” e del figlio Nic “Tweak: Growing up on methamphetamines”), il lungometraggio del regista belga Felix Van Groeningen è una storia di affetto incondizionato, perdizione incontrollabile e tenacia in entrambi questi due ambiti.
Nic è un giovane sensibile e interessato all’arte, alla musica, alla cultura, alla letteratura dei poeti maledetti. Nulla lascia presagire l’orrenda sofferenza e il profondo vuoto che lo affliggono. Dopotutto la droga non deve per forza essere pericolosa, vero? A volte permette solo di staccare il cervello, accantonare i pensieri e svagare in serenità. Questo è ciò a cui Nic (Timothée Chalamet) crede all’inizio, mentre prova qualche sostanza come tanti suoi coetanei fanno. Per suo padre David (Steve Carell) non è un problema, lui non è un bacchettone e vuole lasciare Nic libero di fare le proprie esperienze. Suo figlio è troppo intelligente per farsi fagocitare da un incubo tanto tetro quanto la dipendenza, al suo Nic non potrebbe mai accadere. Purtroppo si sbaglia e quando si accorge che la tossicodipendenza non è più solo una lontana possibilità improbabile ma una realtà, è troppo tardi. Questo problema si affronta, allora, tutti insieme, perché Nic ha una famiglia allargata che lo supporta pienamente e lo ricopre di amore e sostegno. Sembra non bastare e mentre la questione si fa sempre più seria, David diventa sempre più cieco dinnanzi all’evidenza del fatto che non è possibile salvare chi non intende essere salvato.
La presa di coscienza, da parte di David, della gravità della situazione segna tutta la narrazione. L’abnegazione per Nic è totale e, in fondo, fin troppo semplice da giustificare. Nessun genitore rifiuterebbe di aiutare un figlio che fa di tutto per autodistruggersi. È la natura stessa a determinarlo, quella stessa natura che rende alcune persone più fragili di altre e che consente a quelle stesse persone fragili di vedere e reagire alle cose del mondo con una sensibilità incredibile. Quando qualcuno diventa tossicodipendente, quindi malato a tutti gli effetti, non è il solo a soffrire. Le persone a lui più care soffrono altrettanto e forse anche più, per loro non esiste nessun momento di quiete. Soffrono innanzitutto sapendo quale cattiveria il malato si auto infligge; in secondo luogo, si disperano per il senso di colpa che provano, per la ricorrente impossibilità di contattare la persona ammalata e la consapevolezza di non poter effettivamente convincere né tanto meno costringere nessuno a ricevere una cura adeguata. Si crede che i tossicodipendenti provengano tutti da famiglie disfunzionali che, in qualche maniera, potrebbero avere causato dei traumi psicologici indelebili; da ambienti sociali degradati che hanno permesso di entrare in contatto facilmente con le droghe; da condizioni economiche disagiate che spingono a cercare un’ evasione nel divertimento rischioso. Beautiful Boy sfata questo mito: gli Sheff sono una famiglia amorevole, colta e benestante, semplicemente la droga è abbastanza rintracciabile e farne uso è più facile di quanto i pregiudizi potrebbero farci credere.
Non è possibile asserire che l’uso di sostanze potrebbe anche non condizionare una vita, il film illustra sapientemente come questa convinzione che gli Sheff nutrono non potrebbe essere più falsa. Conosciute questo genere di cose non si rimane mai illesi, l’assuefazione è dietro l’angolo e basta un momento di distrazione e debolezza perché la via d’uscita non si veda neanche più. Il racconto non è poi così crudo nel mostrare il percorso che porta Nic alla dipendenza ma, piuttosto, diventa puro e sincero nell’evidenziare l’amore di un’ intera famiglia, e di un padre in particolare, che vuole in tutti i modi aiutare il giovane cercando, con testardaggine irrazionale, di non arrendersi.
Timothée Chalamet, che si era già imposto come nuovo indiscutibile talento del cinema recitando nel successo del regista italiano Luca Guadagnino Chiamami Col Tuo Nome, ricopre il ruolo di Nic Sheff in un modo straordinario. La sua performance accanto a quella di Steve Carell, che siamo soliti vedere in ruoli prevalentemente comici o comunque non così drammatici, risulta del tutto credibile. I due attori insieme stabiliscono un’intesa solida, le emozioni che i loro personaggi provano, soprattutto nel rapporto padre-figlio, rendono il lungometraggio un capolavoro biografico, la condivisione di un’esperienza privata dolorosa e utile, quasi didattica, per lo spettatore. David Sheff sa bene di aver sottovalutato la pericolosità di quanto accaduto a suo figlio Nic, inizialmente, ed ha acconsentito alla realizzazione di una trasposizione cinematografica del suo libro proprio perché altri genitori, parenti, amici di tossicodipendenti non commettano il suo stesso errore. Se è vero che esistono situazioni drammatiche legate all’uso di stupefacenti, è altresì vero che l’amore verso una persona cara non è mai sprecato anche se questo, da solo, non può essere la cura, sfortunatamente