Beatrice Baldacci è una regista e sceneggiatrice che recentemente ha esordito al cinema con il primo lungometraggio da lei scritto e diretto: La Tana (trailer). Un film intenso, che fa del silenzio e della caratterizzazione dei personaggi i suoi punti di forza. Non è semplice per un giovane regista emergente farsi notare nel panorama del cinema italiano, ma lei ci è riuscita, ha portato il suo sguardo sul grande schermo. Studio, tanta gavetta, una personalissima idea del cinema d’autore e, soprattutto, tanta voglia di contribuire a portare freschezza nel cinema italiano.
Come ha preso piede il processo produttivo e successivamente distributivo de La Tana? Come è nata la collaborazione con PFA films?
La Tana è stato prodotto da Lumen films, una casa di produzione che mi ha notata grazie ad un corto che ho presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Dopo aver visto il corto mi hanno chiesto di scrivere un soggetto per un film. E da lì è cominciato il mio percorso a Biennale College, un’esperienza che si divide in vari step. All’inizio c’è una selezione di otto progetti italiani, con la possibilità di prendere parte ad un workshop a Venezia, dopo c’è una successiva scrematura in cui vengono selezionati tre progetti italiani. Infine ne vince soltanto uno. Al progetto che vince viene dato un finanziamento per produrlo. Così è nata La Tana. Successivamente PFA films ha scelto di distribuirlo. Mi reputo molto fortunata per aver avuto la possibilità di vedere il mio film entrare nella distruzione nazionale, non è scontato e, anzi, è molto difficile che i film che partecipano a Biennale College vengano distribuiti.
Come pensi sia andata e stia andando la distribuzione del film?
La distribuzione è andata nella media italiana e, se si considera il rapporto tra incasso e numero di copie prodotte, ci possiamo ritenere molto soddisfatti del risultato. La comunicazione è stata fatta a tappeto, siamo contenti del fatto che si stia sentendo parlare de La Tana. Anche la scelta di organizzare degli incontri nei vari cinema italiani per presentare il film è stata apprezzata e mi auguro continui a dare i suoi frutti.
Leggendo la tua biografia viene fuori che prima di approcciarti al mondo dello spettacolo hai conseguito gli studi in psicologia. Pensi che cinema e psicologia siano collegati? Quanto pensi che questo percorso di studi abbia influenzato la tua carriera da regista?
Vedo il cinema e la psicologia strettamente collegati, soprattutto se si prende in considerazione il tipo di cinema che voglio fare io, un cinema introspettivo capace di tirare fuori emozioni inconsce. Mi interessano dei personaggi complicati, incasinati e sicuramente, in determinate mie scelte, viene fuori la mia passione per la psicologia. Consciamente non posso dire come nel mio lavoro influisca la psicologia, certamente lo fa ma senza che io me ne renda conto.
Oltre ad aver diretto La Tana hai anche contribuito (insieme ad Edoardo Puma) alla sua scrittura. Quanto pensi che sia importante per un regista mettere mano alla sceneggiatura del film che si troverà a dirigere? Molti registi affermano che il vero autore di un film è colui che lo scrive.
Sono dell’idea che un film abbia tanti autori, oltre al regista e agli sceneggiatori penso che il montatore sia un altro importante autore del film. In generale credo che dipenda molto dal tipo di film che si intende fare: se si vuol realizzare un film d’autore penso che il regista debba partecipare alla sua scrittura. La scrittura è una cosa personale. Nel mio caso, partecipare alla scrittura di un film mi permette di renderlo un film personale. Essere affiancata da uno sceneggiatore mi aiuta a capire come strutturare la sceneggiatura e compensa alcune mie lacune (dato che non ho studiato sceneggiatura nello specifico). La mia è una scrittura che si compone di immagini, sensazioni, e la combinazione con uno sceneggiatore fa nascere il film. Edoardo Puma è molto bravo nel creare scene di tensione, appigli narrativi. Insieme abbiamo strutturato il tipo di film che volevamo creare. Abbiamo deciso di portare avanti uno stampo noir che ci permettesse di intraprendere un discorso sul dolore. Uno degli azzardi del film è stato quello di cambiare il punto di vista, quindi passare, durante la narrazione, dal punto di vista di un personaggio a quello di un altro. Questa è stata una scelta coraggiosa poiché richiede un grande slancio empatico da parte dello spettatore.
Nel film le sequenze quasi documentaristiche della natura fanno pensare ad alcuni lavori di Agnès Varda e, le modalità con cui scegli di rappresentare la nudità sembrano rifarsi al cinema di Bertolucci. Quali sono le tue influenze artistiche?
Dipende tanto dal film che scrivo. Sicuramente ci sono delle references. Prendo ispirazione dalle fotografie dei miei fotografi preferiti perché mi permettono di domandarmi cosa ci sia dietro la foto. Per La Tana, in particolare, ho preso in riferimento Gregory Crewdson, un fotografo che usa sempre la nudità dei corpi. I suoi sono corpi abbondonati, che trasmettono solitudine. Un regista a cui mi ispiro è Xavier Dolan, penso che nel film si percepisca. Di lui apprezzo gli slanci emotivi. Poi mi viene in mente il cinema di Lucrecia Martel e la sua capacità di portare a galla l’inconscio. Per quanto riguarda le immagini della natura ho deciso di realizzarle con il cellulare. É un linguaggio che porto spesso avanti nei miei film. Penso che sia un mezzo potentissimo che riesce a tirare fuori l’emotività dei personaggi, a portare sullo schermo ciò che viene dal loro inconscio. In questo modo l’immagine assume un significato emotivo e non solo narrativo.
Quanto pensi sia importante la colonna sonora nel film, soprattutto in merito al contrasto che riesci a creare tra musica e silenzio?
Ho lavorato alla colonna sonora del film insieme a Valentino Orciuolo. Inizialmente gli ho presentato delle references musicali e poi abbiamo cucito la musica sulle scene e sull’emotività dei personaggi, con lo scopo di tirare fuori quello che sentono. La musica è posizionata nei momenti di slancio emotivo. Il film è molto silenzioso quindi quando la musica ti arriva la senti. Volevamo che la colonna sonora fosse una compente essenziale del film.
Cosa ne pensi della direzione che sta prendendo il cinema italiano oggi?
Io guardo il cinema italiano selezionandolo molto. A primo impatto sembra che qualcosa stia cambiando. In generale penso che non sono gli autori che devono cambiare ma le case di produzione. Se si continua a produrre un tipo di film e basta non c’è la possibilità per nessuno di inserirsi, di cambiare le cose. Dato che il cinema è strettamente legato all’industria, da soli è quasi impossibile riuscire a far qualcosa, noi registi siamo strettamente legati alle case di produzione. Ma sono fiduciosa, sto notando, nell’ultimo periodo, che alcune case di produzione, anche quelle un po’ più grandi, si stanno aprendo ad un po’ di freschezza, si stanno rendendo conto che è questo quello che il pubblico richiede. Per apportare un cambiamento nel cinema bisogna cambiare la radici.
A tal proposito, quanto pensi sia difficile per un regista emergente farsi notare nel mondo del cinema? Ci sono, secondo te, dei passaggi obbligati da seguire per cominciare a farsi strada in questo ambito?
Studiare può essere utile ma anche inutile. Io ho studiato cinema in un’accademia delle belle arti e per me è stato utile, perché ho avuto dei docenti molto bravi. Studiando ho imparato a sviluppare uno sguardo, a capire quello che volevo raccontare e come volevo raccontarlo. Penso che studiando non si impari la tecnica registica, quella si impara girando. Bisogna cercare nello studio lo spirito critico, soprattutto nei confronti di se stessi. Ma sono dell’idea che per arrivare allo stesso punto ci siano strade diverse. Io ho partecipato a tanti bandi, tante residenze artistiche, ho conosciuto molte persone che hanno la mia stessa passione, che vogliono fare quello che voglio fare io e penso che questo sia molto importate.