«Li lascio dietro di me…
(Il ritorno del Cavaliere Oscuro – Frank Miller)
Lascio ogni cosa alle mie spalle.
E vado nel luogo oscuro, dove ti ho incontrato per la prima volta… Prima che i miei genitori morissero… Prima di scoprire ciò che sono»
Siamo nel 1939. Superman ha avuto un enorme successo. Quella che oggi conosciamo come la DC Comics vuole replicare il proprio trionfo fumettistico. A maggio del 1939, grazie a Bob Kane e Bill Finger, nel numero 27 di Detective Comics, si fa largo un’ombra, ancora non così tanto dark quanto sarà destinato a diventare, ma pur sempre dalle sembianze di un pipistrello. Si tratta di Batman, alias Bruce Wayne, un supereroe da un carattere scontroso, destinato a diventare l’icona dell’eroe contemporaneo, un antieroe, ma anche uno dei simboli più acclamati del mondo della DC e di quello fumettistico in generale.
A 80 anni dalla sua nascita, e in occasione della recente uscita di Joker, film che sta creando ampi dibattiti sui cinecomics, questo approfondimento si propone di analizzare l’adattamento cinematografico dell’albo fumettistico che vede come protagonista il futuro Cavaliere Oscuro. Tale breve analisi sarà suddivisa in tre capitoli, che si focalizzeranno su tre film in particolare: la rappresentazione del Batman di Burton (1989-1992), la trilogia di Nolan (in particolare Il cavaliere oscuro) e, infine, Joker di Todd Philips, cercando di cogliere, tramite i collegamenti con i fumetti e la società, la vera natura dell’Uomo pipistrello.
- Il Batman di Tim Burton: un eroe gotico, simbolo di una città decadente
«Lo sporco, il veleno di questa città sono inarrestabili,
una marea senza fine di cadaveri…
mese dopo mese, anno dopo anno.
A volte penso che… che…
Non finirà mai.
Già. Saremo noi a fare una brutta fine»
(Giù, giù, giù di Hurwitz e Kudranski)
Un grattacielo. La visione è dall’alto. Un mantello nero svolazza, lasciando spazio a un’ombra snella sul pavimento, che abbozza due orecchie da pipistrello. Quest’immagine, che si rifà largamente allo stile espressionista molto caro a Tim Burton, regista di questa pellicola, è la prima apparizione dell’eroe pipistrello targata Warner Bros., che segna fin da subito un enorme successo sia a livello di critica che a livello di incassi. Apparso già negli anni ’60 nella serie televisiva e nell’omonimo lungometraggio, Batman, interpretato nel 1966 da Adam West, sta pian piano perdendo la sua popolarità. Fu così che tra il 1979 e il 1986, dopo travagliate scritture di copioni e visto anche il successo riscosso, in ambito fumettistico, da Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller, la Warner Bros. decide, ispirandosi a un’idea del 1979 del fumettista Michael E. Uslan, di portare per la prima volta sullo schermo un personaggio più simile a un’ombra della notte che a un eroe. Grazie anche a una bozza di Tom Mankiewicz, si decide di trasporre sullo schermo la visione concettuale che dell’Uomo pipistrello avevano avuto all’inizio Bob Kane e Bill Finger.
Visione che, i due fumettisti, avevano anche ampliato con l’uscita di Detective Comics n. 33 e Batman n. 47, che si concentrano in maniera più approfondita sulle origini di questa nera figura, che appare sempre più umana che eroica. In seguito al successo cinematografico di Tim Burton, nel 1985, e l’uscita successiva de Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Miller che, per la prima volta, anche graficamente, rappresenta un eroe più grezzo, più crudo e, soprattutto, umano, la Warner decide di portare sullo schermo una versione più cupa del pipistrello, che ne cogliesse la vera natura bizzarra. Quindi, sebbene il clima culturale non permetta ancora una rappresentazione tanto realistica e così tanto freddamente e umanamente dolorosa di un eroe, che si affaccia alle porte moderne dell’antieroe, la produzione decide comunque di optare per atmosfere (scenografie, costumi, regia e fotografia) gotiche e che, allo spettatore cinefilo, ricordino diverse tecniche tipiche dell’espressionismo, in primis, come si può notare già dalla prima inquadratura, l’utilizzo delle ombre. Grazie a una deformazione visiva, il pubblico assiste marcatamente alla crisi emblematica e identitaria di Batman, che Michael Keaton cerca di interpretare tramite un uso particolare della voce, ma anche attraverso una comunicazione pirandelliana del volto e del corpo, che entusiasma il pubblico, ormai abituato a una macchiettizzazione del personaggio avvenuta con la serie e il relativo lungometraggio con Adam West.
Il 1989, quindi, segna un’importante affermazione dell’Uomo Pipistrello all’interno di un media diverso dal fumetto cartaceo o dalla televisione: il cinema che, man mano, delineerà le idiosincrasie di questo eroe totalmente umano. Per fare ciò, la Warner Bros. coglie subito l’importanza di inserire come primo nemico di Batman il suo alterego più macabro, che pian piano nei fumetti, in particolare nel 1988 con l’uscita di Batman: The Killing Joke, si stava facendo spazio come l’altro volto della medaglia dell’eroe pipistrello. Si tratta di Joker, qui interpretato da un magnetico Jack Nicholson, che ancora detiene il trono della performance più strettamente legata alle strisce fumettistiche. Non solo, il dramma di questo antagonista nel film viene strettamente legato alle origini che del clown dà Alan Moore in Batman: The Killing Joke, pubblicato qualche mese prima dell’inizio delle riprese e che in seguito sarà ampiamente ripreso sia da Il cavaliere oscuro di Nolan e, in particolare, dall’ultimo Joker di Todd Philips. Ma l’attore riesce anche a riprendere le gestualità e la mimica facciale, che Jerry Robinson, nel 1940 nel numero 1 di Batman, aveva dato al personaggio da lui creato.
Joker, infatti, nelle strisce dedicate a Batman viene rappresentato come una molla, un ordigno inesploso, qualcosa di ingestibile e incontrollabile, che cela dentro di sé un dolore immenso che emerge solo da piccole frasi, piccoli gesti, piccoli sguardi che, nelle mani esperte di Nicholson, diventano macabri e simbolo di un’esplosione barocca di colori, che si contrappongono alla rabbia esplosiva e vendicativa della Legge, rappresentata dalle tonalità scure dell’Uomo pipistrello che, inconsciamente e controvoglia, accetta di danzare con «il diavolo nel pallido plenilunio». Diavolo, Joker, che è legato a Batman da un filo tragico di eventi, in cui l’uno diventa il demiurgo della vita dell’altro. A creare il Joker è Batman stesso che, a sua volta, nella pellicola è stato generato da Jack Napier: malavitoso che uccise i genitori di Bruce Wayne e che, gettato nell’acido dall’Uomo pipistrello, perde completamente la lucidità mentale, cadendo nel baratro della follia, rappresentata visivamente da quelle cicatrici che lo costringono in un sorriso permanente, che, però, come nel caso dell’Uomo che sorride di Victor Hugo, rappresentano un dolore insormontabile.
Qui emerge già la prima idiosincrasia dello stesso Batman, che sarà ben riassunta da una frase all’interno del Joker di Brian Azzarello del 2008: «Indossi la tua vergogna come distintivo perché non hai le palle per indossarne uno vero. Già…Guardati…Vuoi disperatamente essere temuto, vuoi che ti vedano come un mostro avvolto di nero». L’eroe è lacerato dal peso quasi insostenibile dato dalla maschera del paladino e dal proprio senso di dolore per la morte dei propri genitori. Un dolore che, nel 1992, Archie Goodwin e Scott Hampton in Batman Nightcries descriveranno come una voragine, che si nasconde tra le ombre di una maschera, simbolo di «un’impresa tremenda, impossibile». Tutto ciò, in queste due prime pellicole dirette da Burton tra il 1989 e il 1992, emerge dalla freddezza delle azioni che Bruce Wayne è disposto ad attuare senza fermarsi a pensare o a vedere l’umanità ferita e fragile dei nemici che si trova davanti, come Pinguino, che, nel preambolo della pellicola del 1992, viene mostrato come il frutto di una società malata. Figlio di due aristocratici, a causa del suo essere deforme e incapace di relazionarsi con gli altri, per evitare il mal parlare della società, invece di aiutarlo tramite un’assistenza psicologica, lo rinchiudono in una culla e lo abbandonano a una fine straziante, dalla quale si salverà ma con una psiche per sempre distrutta. Batman, con la propria freddezza, simbolo di un altro corpo umano straziato (il suo), non fa altro che mettere il dito nella piaga, non concedendo alcun tentativo di redenzione a un uomo diventato un mostro a causa del proprio dolore. Grazie alla regia gotica ed espressionista di Tim Burton, senza bisogno di parole o eventi, emerge un eroe sempre più alle soglie dell’antieroicità, marcatamente umano e tormentato dalle ombre di un passato che non gli permettono di notare le idiosincrasie della stessa società che lui afferma di voler salvare, senza rendersi conto, però, che non deve salvare Gotham, ma, semmai, redimerla dal marciume che cova in seno e che nella trilogia di Nolan diventa il motore portante della storia. Tra il 1989 e il 1992 al cinema si disegna un eroe che, alla fine, si dimostra capace solamente di sentire «il suono della propria voce che urla di frustrazione. Il grido di un pipistrello solitario incapace di trovare la via».
2. Il Cavaliere oscuro dei fratelli Nolan: un antieroe che lotta per la redenzione
«Niente più legge ed ordine a Gotham City. C’è solo il Caos.
Casuale…
Distruttivo…
Caos!»
(L’ultima follia notturna del Joker! di Kelley Puckett e Ty Templeton)
La macchina da presa si lascia alle spalle un qualsiasi tentativo pittorico di mediazione nella rappresentazione di una squallida città, Gotham, e del suo eroe. Un eroe freddo, ancora non glaciale come quello interpretato successivamente da Ben Affleck, ma che, figlio sempre di più di autori come Miller, Azzarello, Goodwin, Hampton ecc., mostra la sua umanità e le sue cicatrici all’interno di una società che non ne riconosce il valore, usandolo come capro espiatorio per i loro stessi mali, ma che, allo stesso tempo, ne richiede l’intervento, nonostante questo porti a una frattura sempre più ampia all’interno dell’Uomo pipistrello, disposto all’estremo sacrificio in nome della Giustizia. Se Batman Begins serviva a Christopher Nolan per delineare una bozza di chi sia Batman, soprattutto in relazione a Gotham, metafora del mondo reale e soprattutto della società americana, è solo ne Il cavaliere oscuro che, sostenuto dalla sceneggiatura di Jonathan Nolan, riesce a definirne meglio la natura, che arriva a un’esplosione citazionistica ne Il cavaliere oscuro –Il ritorno, che però rappresenta un film nato tronco. I fratelli Nolan capiscono che, oltre all’utilizzo di un occhio quasi meccanico, quella della mdp, che non si lasci andare a sentimentalismi artistici, per entrare nel cuore di quello che è diventato a tutti gli effetti un Cavaliere Oscuro bisogna metterlo in paragone con il suo acerrimo nemico, nonché nemesi: Joker, anticipando di cinque anni lo slogan promozionale del videogioco Batman Arkham Origins: «Your enemies will define you».
Batman e Joker appaiono sempre più simili, entrambi frutto di una società che, a causa della sua patologia, ha generato una medaglia con due facce, ma pur sempre la stessa medaglia, che quindi rappresenta sia il veleno che il suo antidoto. In ciò, Jonathan Nolan non fa altro che trascrivere un qualcosa che Alan Moore aveva già fatto nel 1988 in Batman: The Killing Joke, fumetto che si trova al centro sia del primo film sull’Uomo pipistrello diretto da Burton, sia in questa trilogia di Nolan, come, infine, nel recentissimo Joker. Moore, esaminando a fondo il rapporto contorto tra Batman e Joker, capisce realmente entrambi i personaggi, rappresentandoli, alla fine, come due personalità di un unico individuo. Il clown, nemesi del Cavaliere oscuro, tanto in Moore, quanto nel personaggio interpretato da Heath Ledger, non è più burlesco come all’inizio, ma è sempre più inquietante, soffocato da un dolore che, purtroppo, a causa della morte prematura del suo interprete, non ha trovato una catarsi all’interno della trilogia cinematografica che così trova nel suo ultimo film un’opera tronca, adattata a un personaggio, Bane, a cui non si confà. Joker è un personaggio malato, non lucido, probabilmente segnato da un passato traumatico, di cui dà la colpa alla società. Una società che, già in Batman Begins, è rappresentata come corrotta e generatrice di personalità terroristiche, come Due facce, ex Harvey Dent, la cui creazione ricorda la trasformazione di Gordon all’interno sempre di Batman: The Killing Joke. Lo stesso discorso che il Joker cinematografico fa a Batman prima di penzolare dal grattacielo, ricalca quello del fumetto di Alan Moore: «Vedi, non mi importa se mi prendi e mi rimandi in manicomio… Ho fatto impazzire Gordon. Ho dimostrato la mia teoria. Ho provato che non c’è nessuna differenza tra me e gli altri! Basta una brutta giornata per ridurre alla follia l’uomo più assennato del pianeta. Ecco tutta la distanza che passa tra me e il mondo. Una brutta giornata. E una volta l’hai avuta pure tu. Ho ragione? Ma sì che ho ragione. Si vede. Hai avuto una brutta giornata e tu sei cambiato. Altrimenti perché ti vestiresti da topo volante? Hai avuto una brutta giornata e sei impazzito come tutti…».
Il Cavaliere Oscuro tramite il tratto freddo e impenetrabile di Christopher Nolan, mostra dunque, anche grazie all’abilità di scrittura e allo studio del personaggio attuato da Jonathan Nolan, un antieroe sofferente a causa di una società che genera i propri mostri. Una società che riecheggiava già nel 2008 nel Joker di Brian Azzarello: «Sono sul tetto del mondo, e guardo in basso. Sapete cosa vedo? Volete sapere cosa vedo? Vedo voi… Una malattia. Che esiste da prima di Gotham, la città che ha infettato. Una malattia che è più vecchia di ogni città. Diamine, probabilmente è la malattia che ha costruito la prima città. Ci sarà sempre un Joker. Perché non esiste cura. Nessuna cura. Solo un Batman». Una società allo sbaraglio, corrotta fin dentro le radici e capace di distruggere anche l’uomo più integro della città, Harvey Dent. Una società che, se il Joker ne vuole scoperchiare le ipocrisie, Batman vuole redimere, senza mai cedere a un impulso vendicativo, contrariamente a quello di Michael Keaton. Bruce Wayne arriva così al sacrificio più estremo, che ne colpisce duramente il corpo e l’anima, come mostra l’inizio dell’ultimo capitolo della trilogia portata sullo schermo dai fratelli Nolan, che mostrano un uomo, costretto a essere eroe, tormentato, oscuro e impenetrabile. Un uomo che, come suggeriscono le pellicole successive legate a questo mondo fumettistico DC, forse è sempre stato spezzato e che, dunque, non potrà mai trovare una catarsi.
3. Il Bruce bambino di Joker: l’uomo spezzato dietro la maschera
«Gli occhi brillano, privi di amore, gioia o dolore.
(Il ritorno del Cavaliere Oscuro – Frank Miller)
Il fiato caldo odora di nemici caduti del fetore delle cose morte e maledette.
Sicuramente il sopravvissuto più feroce.
Il guerriero più puro.
Risplendi del tuo odio e vieni a farmi tuo»
Dalla prima visione al festival di Venezia, alle diverse premiere, all’uscita in sala, il Joker di Todd Philips ha di sicuro creato un enorme vociare sulla violenza, sulla figura del Joker e sulla natura dei cinecomics (“Joker è o non è un cinecomic?” – la domanda più frequente relativa al film). Tutte questioni lecite che, però, hanno tralasciato il fulcro fondamentale dell’intera opera che, sebbene appaia in poche scene, mostra un discorso iniziato anni prima dal Batman interpretato da Ben Affleck: la raffigurazione di Bruce Wayne. Riprendendo le domande sopracitate, anche tramite l’analisi dei film diretti da Burton e da Nolan e l’analisi di Batman e del mondo delineato dai fumetti DC, si può capire che Joker è solamente l’esasperazione e l’accentuazione di una realtà che, sì, si stacca dai classici cinecomics della Marvel, ma semplicemente perché sono l’adattamento di un recipiente di eroi e antagonisti prettamente umani e non “supereroistici”, come quelli tipici dell’universo Marvel (in particolare di quello cinematografico). No, non è un cinecomic come quelli della Marvel, ma è comunque un cinecomic perché richiama le atmosfere del fumetto DC e relativamente alla figura del Joker ne coglie a pieno la personalità multipla che ha sviluppato nel corso di anni e anni di strisce e fumetti. Non riprende un unico fumetto, come era successo per la pellicola del 1989, ma ingloba dentro di sé più storie (in particolare The Killing Joke e Amore e pazzi di Green), giocando anche con i lettori dei fumetti legati a Batman, dando per metà film una serie di nuove risposte ai dubbi relativi al Joker per poi smentirle tutte una dietro l’altra, non solo ritornando al punto di partenza, ma aprendo nuove perplessità sulla figura di Bruce Wayne.
Già nel 2016 la Warner Bros. aveva mostrato, tramite Batman v Superman: Dawn of Justice, di voler accentuare ancora di più l’aspetto macabro e umano dei personaggi DC. Aspetto che emerge soprattutto dalla caratterizzazione, supportata dai dialoghi, dalle inquadrature e dall’interpretazione, di Lex Luthor, ma anche di Batman. La scelta di Ben Affleck, infatti, calza a pennello con l’immagine che Frank Miller in primis aveva dato del Cavaliere Oscuro. L’attore ne riprende non solo la corporatura dura e grezza, tipica del tratto di Miller e di diversi autori post “Il ritorno del Cavaliere Oscuro”, ma, tramite la mimica corporea, vocale e facciale, lascia trasparire un vuoto e un tormento che delineano un eroe, ormai totalmente antieroico, profondamente umano e dilaniato. Questa visione, interrottasi bruscamente a causa del flop dei relativi film, trova comunque un proprio ampliamento all’interno di Joker nelle due scene dedicate al piccolo Bruce Wayne, di cui è di estrema rilevanza la prima.
In questa scena assistiamo a un incontro tra il futuro Joker e il futuro Batman, destinati, anche in questo film, a diventare nuovamente i due volti della stessa medaglia. Joker, alias Arthur Fleck, tenta disperatamente di far sorridere quello che diventerà la sua nemesi. Il bambino, tuttavia, risulta apatico, glaciale (sensazione che anche la regia e la fotografia marcano, cambiando improvvisamente da un tono che nel film è stato sempre pop e a tratti tragico, ma molto intimista, a uno stile freddo e distaccato). Si percepisce il vuoto interiore che prova e la sua incapacità di esprimere emozioni. Questi tratti sono sempre stati presenti nella figura dell’Uomo pipistrello e della sua identità segreta, sia a livello fumettistico che cinematografico, e sono stati in seguito approfonditi in primis da Miller, ma anche da Azzarello, Godwin e Hampton, Hurwitz e Kudranski, oltre che cinematograficamente dall’interpretazione di Ben Affleck.
Tuttavia, se implicitamente si è sempre data come spiegazione a tale personalità dilaniata e tormentata il fatto che Bruce avesse assistito alla morte dei suoi genitori, qui si apre una crepa più profonda, forse anche più umanista, che non solo cambia le carte in tavola, ma che si lega inesorabilmente al discorso che, tramite la violenza, il film stesso ha portato avanti. Il piccolo Wayne è sempre stato spezzato, malato fin dentro le ossa, e il suo fatl flaw non lo ha cambiato, ma gli ha solo dato modo di reagire e mettere di lato parte della propria apatia. Non tanto con Joker, ma proprio con la raffigurazione che di Batman fa il film emerge un lato violento, corrotto e marcio della società contemporanea cinematografica, ma anche reale, che ha visto nascere figure come Charles Manson, che, tra l’altro, mostra numerose corrispondenze biografiche con lo stesso Joker. Questa società spezza i propri individui, a volte sul nascere (Bruce Wayne) e a volte durante il loro tentativo di ricerca della felicità (Arthur Fleck). Joker porta dunque all’estremo un discorso iniziato nel 1939 e ampliato nel 1989 grazie allo schermo cinematografico.
Chi è Batman? Finalmente nel 2019 si arriva a una costatazione che è sempre riecheggiata nei fumetti, ma anche nei film, ma che mai come adesso ha trovato una via tanto esplicita. L’eroe, quell’eroe di cui tutti sembrano aver bisogno e che però nessuno mostra di meritarsi, è alla fine dei giochi semplicemente il prodotto più degno di un mondo ipocrita. È un uomo che ha per anima «un cimitero immenso e buio» (Frank Miller, Il ritorno del cavaliere oscuro). A 80 anni dalla sua nascita chi è Batman? Semplicemente una contraddizione in essere.