Bad Boys: Ride or Die, la recensione: Miami kitsch

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Il brano degli Inner Circle irrompe ancora una volta sul grande schermo per accompagnare Bad Boys: Ride or Die (trailer), quarto capitolo del franchise di Bad Boys. I due detective, Mike Lowrey (Will Smith) e Marcus Burnette (Martin Lawrence) devono affrontare una nuova e sfiancante minaccia. Il cartello, e la polizia stessa, minano l’integrità del defunto capitano Conrad Howard (Joe Pantoliano), e la coppia, per rivelare l’arcano, non esita a infrangere le barriere della legge. D’altronde se si chiamano Bad boys un motivo ci sarà.  

Siamo nel 2024, GTA VI non è ancora uscito, ma la Miami che ci propongono i registi Adil El Arbi e Bilall Fallah non si allontana molto da quella del trailer del videogioco, coccodrillo incluso. Una città luminosa, sia di giorno che di notte. Vuoi per le insegne al neon, vuoi per le continue esplosioni che accompagnano la fuga dei detective. Sembra di trovarsi in una missione del videogioco di casa Rockstar. Omicidi, carceri, città, elicotteri e foreste, il film è una ridda di inseguimenti e colpi di scena. L’interpolazione di inquadrature del prequel Bad Boys For Life instaura un rapporto di continuità che rende il film difficilmente digeribile per gli estranei alla saga. A maggior ragione perché, in questo capitolo, alla solita comicità della coppia si emulsiona un inedito approfondimento psicologico dei personaggi.

È il matrimonio di Mike, e Marcus, sciolto sulla pista da ballo, cade improvvisamente. Per cinque giorni è in coma. Nel lungo sonno viene a contatto col defunto capitano Conrad che gli rivela che non è ancora giunta la sua ora. Al suo risveglio Marcus sembra essere rinato. Crede di non poter morire. Ma la sua energica vitalità mette in evidenza l’ombra che circonda il suo partner. Infatti, Mike è alle prese con attacchi di panico che lo mettono a serio rischio negli scontri che lo coinvolgono. Ma questa sua caratterizzazione non gode di un forte supporto narratologico. Anzi, si fonda quasi del tutto sui traumi generati nel prequel, che ora riemergono come frammenti in una finestra temporale assai stretta. Il senso di colpa per la morte del capitano, assieme alla preoccupazione per quella gatta da pelare che è il figlio, lo destabilizzano, ma poco di tutto ciò si vede sullo schermo. In aggiunta, questi eventi si mescolano con il rapimento della moglie, personaggio chiave attraverso il quale si scioglie questa miscela di emozioni che immobilizzano Mike. Tuttavia, nel calderone degli avvenimenti lo stato di stress del protagonista risulta un espediente debole, soprattutto per la mancanza di una forte linea di connessione tra questo e il precedente film.

Le sequenze oniriche, come anche quelle d’azione, godono di un supporto tecnico e di una cifra stilistica peculiare. Nel corso del film si alternano molteplici inquadrature da punti di vista insoliti, come da un pacchetto di skittles o dal quadrante di un orologio. Ad aggiungersi è anche l’utilizzo della SnorriCam, sistema ancorato al corpo dell’attore che conferisce maggiore dinamicità alla scena. Tuttavia, la macchina da presa è spesso vicina ai soggetti, come a pensare il film già sul piccolo schermo. Questo rende le scene d’azione frenetiche piuttosto nauseanti se viste a una maggiore vicinanza in un cinema, dove si è completamente immersi nella visione rispetto allo sguardo totale e distaccato che si ha di una televisione o di un computer. Inoltre, delle soluzioni visive risultano kitsch. Alcune sequenze all’aperto mettono in evidenza delle scenografie plastiche che deviano paradossalmente dall’illusione di realtà con case e oggetti che sembrano fatti di zeri e uno, proprio come in un videogioco. La luce, talvolta poco contrastata, contribuisce a inserire il film nella matassa delle produzione audiovisive che seguono una certa tendenza estetizzante fatta di pochi colori: blu, arancione e viola.

In sala dal 13 giugno.

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