Sono passati nove anni da quando usciva l’irriverente Holy Motors, film che, oltre a ragionare sulla valenza dello statuto cinematografico e spettatoriale, s’interrogava sul concetto prismatico del disumano. È da questo punto che riprende le fila Annette (qui il trailer), la nuova opera (in tutti i sensi) musicale di Leos Carax, presentata alla 74esima edizione del Festival di Cannes e disponibile in sala dal 18 novembre.
Dopo un’interferenza visiva, si parte all’interno di uno studio di registrazione, dove lo stesso Carax, con sua figlia, si prepara a dare l’avvio alla sua opera. Inizia uno dei (se non il) prologhi più iconici mai visti sullo schermo. Senza possibilità di tregua, la macchina da presa si sprigiona in un eccentrico piano sequenza, nel quale gli attori si preparano a ciò che sta per cominciare. Eppure, se fin dal principio ci si chiede, attraverso le note degli Sparks, “So may we start?”, ciò che ci si domanda alla fine è se il film sia mai davvero iniziato o se sia semplicemente rimasto un intento di qualcosa impossibile da gestire e digerire.
La storia è quella di Henry McHenry, interpretato da Adam Driver (The Last Duel), uno stand up comedian all’apice del successo, innamoratosi della regina della lirica, Ann, alias Marion Cotillard (È solo la fine del mondo). Quella narrata, tuttavia, non è tanto una storia d’amore, quanto quella della ricerca di un’identità. Se già in Holy Motors, all’interno del disumano, il regista e sceneggiatore francese affrontava il concetto della Maschera e della Persona, tramite i continui travestimenti del suo protagonista, qui la questione diventa più spinosa e forse più amara nella sua mancanza di certezze.
Rispetto alla nozione di Persona, Jung scriveva che: «la Persona è un complicato sistema di relazioni fra la coscienza individuale e la società, una specie di maschera che serve da un lato a fare una determinata impressione sugli altri, dall’altro a nascondere la vera natura dell’individuo. La costruzione di una Persona collettivamente conveniente è una grave concessione al mondo esteriore, un vero sacrificio di sé, che costringe l’Io a identificarsi addirittura con la Persona, tanto che c’è della gente che crede sul serio di essere ciò che rappresenta». E se lo stesso Carax cita Nietzsche e il suo abisso all’interno di Annette, può non essere del tutto casuale il collegamento con la metafora junghiana.
Doppiamente messo in scena, Henry si dipinge fin dall’inizio come un essere immondo, uno scarafaggio, un pagliaccio, una marionetta dalle sembianze di una scimmia (il suo nome d’arte non a caso è proprio “la scimmia di Dio”), una persona, a detta dei suoi stessi fan, non degna di stare con una come Ann. Assistiamo così alla rappresentazione di un Io inesistente, legnoso e meccanico, che annaspa alla ricerca di un qualsiasi riconoscimento, da un lato, ma soprattutto di una tregua dai continui sguardi e giudizi di un pubblico che non lo vede. Risulta, allora, interessante notare come nel prologo iniziale Adam Driver sia l’unico attore a non sorridere e a non essere rilassato e anzi ad essere anche leggermente impacciato (come quando sembra non saper bene come si debba inginocchiare) ed è anche l’unico a cui viene augurato un caloroso “buona fortuna”.
Henry recita in modo evidente e recita il personaggio affidatogli dagli spettatori. Qui le letture possibili sono molteplici: dal suo genere (e se fosse il suo ruolo di “uomo” ad averlo socialmente condotto alla violenza? D’altronde, nelle prime scene, appena diventato padre, viene inquadrato come amorevole e presente, differentemente da Ann che nel frattempo continua a lavorare, lasciandolo a badare da solo alla figlia, mentre lui si trasforma in un pupazzo, in ciò che ha paura di sembrare) fino a questioni artistiche (la stand up comedy, arte di questo secolo, potrà mai competere con l’aura della lirica? O rimarrà sempre un feticcio, una buffonata, con battute spesso al limite con la violenza di genere?).
A tale lettura si aggiunge l’impatto coloristico. Se Ann viene inquadrata tramite il rosso (colore simbolo del potere) e il celeste (freddezza), Henry è sempre caratterizzato dal verde, che indica, oltre all’immaturità, la corruzione. Il suo personaggio, infatti, è appunto corrotto dalla sua stessa maschera, quella maschera data dalla collettività e di cui parlava Jung. Una maschera che però il protagonista di Carax mal accetta. Si muove ferino nei confini del quadro cinematografico, spesso rompendolo e guardando di nascosto la macchina da presa o a filo obiettivo (come nel monologo a teatro post prologo) e alla fine intimandola rabbioso di smettere di riprenderlo nel momento del suo apice emotivo.
La recitazione adottata da Driver (magnetico, capace di oscurare chiunque all’interno del film e di rapire lo spettatore), se da una parte evidenzia quest’aspetto accentuando la freddezza delle proprie espressioni, tramite la sua meccanicità bressoniana sembra lasciar emergere la volontà, da parte del regista e sceneggiatore, di creare un’arte quasi translucida. Pur andando oltre le pieghe del realismo e avvinghiandosi a una realtà magica, per tutto il film si ha l’impressione di un qualcosa che spiritualmente cerca di emergere in filigrana, dando un senso all’intera visione e all’esperienza spettatoriale, attoriale e umana stessa.
All’inizio dell’articolo ci si domandava se in fin dei conti Annette non sia un’opera che rimanga solo un buon costrutto d’intenti. Sicuramente è così e a sottolinearlo sono anche numerose scene (come quella in macchina di Ann) che travisano lo spettatore come le sirene fecero con Odisseo. Annette però è un’esperienza che merita di essere vissuta in tutta la sua completezza anche per questo, nonostante ogni ruga che la sua maschera presenta, così profonda da lasciare stizzito lo spettatore, ma in grado di accendere in lui un intricato e rocambolesco dibattito circa l’identità del corpo umano e cinematografico. Due corpi diventati ormai entropie di un mondo privo di sostanza. E alla fine, è sempre stato questo il punto d’interesse di Carax, il cui sguardo è diventato più cinico e crudo nell’interrogarsi, quasi romanticamente, sul che cosa si nasconde dietro lo schermo, dietro quell’occhio disumanizzato dall’obiettivo meccanico.