Sfogliando le pagine del sito dell’UNESCO, ci si può imbattere in una lista di proposte (“Tentative Lists”) per siti potenzialmente eleggibili, previa candidatura, a patrimoni dell’umanità. Il 14 febbraio del 2012 il ministero della Cultura della Romania ha presentato una domanda per l’antico villaggio di Rimetea, collocato ai piedi dei Monti Apuseni, nella contea di Alba in Transilvania. Sotto la voce “valori” (traduzione letterale: la pagina è in inglese, ndr), punto 7.2, troviamo qualcosa che non può non saltare all’occhio del lettore: l’esemplare convivenza – una “armonia iper-etnica” per citare il testo – tra il popolo tedesco, ungherese e romeno. Fattore già visibile da alcune foto, vista la conservazione di edifici quali chiese, di stampo prettamente tedesco. Una zona florida e probabilmente ricca di storie e tradizioni culturali, verrebbe da pensare.
11 febbraio 2020: la popolazione del paesino Ditrău (contea di Harghita, sempre in Transilvania), guidata dal proprio cappellano, ha presentato una petizione alle autorità per espellere dal comune tre lavoratori singalesi (rei di aver minacciato la loro cultura e la pacifica convivenza della comunità) assunti dal panificio locale. Gli scontri, perlopiù verbali e passati attraverso ripetute minacce di morte a questi ultimi, si sono protratti per circa due mesi, fino allo scoppio della pandemia. Amaramente, una storia come molte altre, che per forza di cose finisce sempre per coinvolgere le politiche, così distanti, non tra i singoli stati e i loro comuni, ma tra la comunità europea – promotrice di un progetto di integrazione – e piccole realtà ignoranti di ciò che le circonda.
È l’ormai secolare e spinosa questione della globalizzazione; di ritmi insostenibili del mondo contemporaneo e dell’incapacità di intavolare un discorso per insegnare il vero significato della democrazia alle varie popolazioni e il peso di un ruolo attivo come quello del cittadino. Mentre, tramite via traverse, becere forme di populismo conquistano facilmente terreno. Attorno questo lunghissimo ragionamento si è concentrata l’intensa conferenza stampa che ha accompagnato l’anteprima dell’ultimo film di Cristian Mungiu, Animali selvatici (trailer). Titolo che da una parte sceglie la cornice di Rimetea come scenario per la storia (il film è stato girato sul finire del 2021), dall’altra l’incidente di Ditrău come motore del dramma.
Collante ideale, e utile, al disegno del cineasta romeno non poteva che essere un personaggio come Matthias (Marin Grigore). Migrante in Germania, è costretto a fare ritorno a casa per due eventi: l’aggressione al suo principale per via di un insulto xenofobo da parte di quest’ultimo, il mutismo perdurante di suo figlio Rudi, sorto a seguito di un incontro non ben definito in un bosco (come vediamo a inizio film, che non mostra mai il controcampo del volto spaventato del piccolo).
Il ritorno però sarà ancor più drammatico. Scopriremo infatti che Matthias nel villaggio si divide tra una relazione difficile con sua moglie Ana, l’amante Csilla e le precarie condizioni di salute di suo padre Otto. Insomma, un personaggio problematico differenziato da una natura aggressiva. Egli, infatti, si “piegherà” alle idee di Csilla (nonostante l’interesse sia solo carnale, vista la difficoltà nel pronunciare un sincero “ti amo” in romeno, la sua lingua) e “razzolerà” malamente, costringendo il figlio a conoscere il vero volto della realtà attraverso una forma barbara di educazione, alimentata dall’istinto di una sopravvivenza, appunto, primitiva.
A fare da contorno, un riadattamento dell’incidente più volte sopracitato. Csilla è a capo del panificio locale, e per riscuotere un finanziamento dell’Unione Europea, è costretta ad assumere in breve tempo cinque dipendenti. La scelta per tre dei cinque posti ricade su dei cittadini singalesi: gli unici ad aver risposto all’annuncio, che prevede il pagamento minimo del salario e straordinari remunerati il doppio. Inutile proseguire specificando i modi in cui questo evento attirerà le antipatie dei locali.
In Animali selvatici le lingue parlate sono molte. Per ribadire l’inizialmente citata “armonia iper-etnica”, Mungiu non pone barriere: ungheresi, tedeschi e romeni si capiscono anche parlando le rispettive lingue (durante la visione, i sottotitoli, colorati diversamente, ci aiuteranno a comprendere in quale lingua vengano pronunciate le battute). C’è anche spazio per l’inglese e il francese. Quest’ultimo soprattutto parlato dai cittadini più “colti” o sedicenti tali (come il padre di Ana, in una scena in cui descrive la natura di “vittima” del proprio paese, sempre attaccato nel corso della sua storia), proprio come scelse di fare Cristi Puiu in Malmkrog. L’unica lingua a ritrovarsi distante da questo schema inclusivo è proprio il singalese. Una dichiarazione d’intenti che crea due schieramenti: uno che fa muro e si chiude in se stesso, composto dai locali, e uno composto dai singalesi e chi sceglie di aiutarli per non farli emarginare dalla società (e di conseguenza anche composto dalle istituzioni più lontane da quello spazio, l’UE).
Mungiu ha la capacità di tradurre questo conflitto, registicamente parlando, in maniera sapiente: abbracciando la pluralità di voci che si scontrano attraverso ripetuti piani sequenza e un abile utilizzo del fuori campo. Se all’inizio infatti potremmo sospettare che Rudi abbia visto un orso o un qualsiasi altro animale selvatico, la figura del fuori campo instilla un dubbio che si protrae arrivando a circondare l’intero villaggio, e in particolare il gruppo dei singalesi, con un’aura minacciosa. Pone domande senza fornire risposte.
Questa tensione si acuirà sensibilmente e all’inverosimile quando il film calerà il vero asso nella manica: un piano sequenza di diciassette minuti, dove la comunità del villaggio discuterà in un centro culturale (l’ironia di Mungiu è invisibile ma spietata nel film) la decisione di espellere i tre lavoratori stranieri, sempre dopo aver presentato una petizione. Un piano sequenza che tiene a fuoco Matthias e Csilla (coinvolti dal loro dramma) ma ubriaca lo spettatore con le opinioni dei singoli cittadini, circondati a questo punto dall’arrivo della stampa.
L’immagine di questa risonanza magnetica, come ci ricorda il titolo originale (R.M.N.), non è però solo deprimente. La qualità principe del film di Mungiu (stupito ma non indignato dagli incidenti di Ditrău), infatti, è quella di non piegarsi a quell’atteggiamento classista cui tanti registi, e intellettuali, cedono fin troppo facilmente oggi, ovvero quello di puntare il dito e girarsi dall’altro lato (un populismo “al contrario”, più imbarazzante di quello che spesso si condanna). In poche parole: Mungiu lascia esprimere più personalità e non intaccare la sensazione di ambiguità che emerge.
Animali selvatici è uno degli esempi più illustri di cinema civico nel 2023. Ciò che più ci serve oggi dovrebbero essere delle basi per una discussione, probabilmente “animata”, volte a comprendere dove abbiamo fallito per ripartire da zero. Abbiamo urgenza di ripensare all’educazione alla democrazia, come sostiene Mungiu, al concetto di ruolo “attivo” all’interno di questo sistema. Sia a livello collettivo che individuale. Proprio come il referto di una risonanza può aiutarci a scoprire cosa di strano sta accadendo in ognuno di noi.
Al cinema dal 6 luglio.