Raccontare storie realmente accadute è pericoloso, soprattutto se sono fatti ancora vividi nell’immaginario collettivo. La regista Maria Schrader, celebre per la serie Netflix Unorthodox (ne abbiamo scritto qui), ci prova lo stesso con Anche io (trailer), dove mostra la nascita del reportage del New York Times sulle molestie che il produttore Harvey Weinstein ha perpetrato sul luogo di lavoro per oltre trent’anni.
Il film è tratto dal libro She Said, scritto dalle giornaliste Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Kazan) che hanno firmato l’inchiesta e segue il loro punto di vista. Ciò che si vede è la difficoltà delle due donne di smascherare un sistema così evidente da sembrare normale e il tentativo di convincere le vittime ad esporsi, nonostante molte l’avessero già fatto in precedenza, con il solo risultato di essere boicottate sul lavoro.
La pericolosità dei racconti tratti dal vero è che si cammina su un filo sottile: da una parte è necessario aderire al reale per il rispetto dovuto a chi ha subito gli eventi in questione, dall’altra è auspicabile romanzare per rendere avvincente quanto viene mostrato. In questo caso l’equilibrista sul filo si sbilancia verso la veridicità, con il risultato di cadere su un film poco incisivo.
Maria Schrader paga la iper notorietà della questione, è una storia che non ha più angoli ciechi da illuminare e questo fa sì che nulla di questo film possa stupire. Il paragone con Il caso Spotlight (ne avevamo parlato qui) non regge, seppur entrambi mostrino la nascita di un’inchiesta giornalistica così dirompente da mutare profondamente la società civile. Il film di McCarthy era nato dall’urgenza di rendere quella storia di dominio pubblico e guardandolo si apprendono particolari della notizia che erano passati in sordina, soprattutto da questa parte dell’Atlantico. Lo stesso meccanismo non può valere per Anche io, dove il maremoto mediatico ha travolto anche l’Italia, dato che tra le 83 donne vittime del produttore c’è anche l’attrice Asia Argento.
È però evidente lo sforzo della regista di mettere al centro della narrazione le survivor, capovolgendo il modo in cui solitamente si parla della violenza di genere. Le donne abusate raccontano, ma soprattutto vengono ascoltate. Una delle ragazze abusate, Laura Madden, dice che nel momento in cui è stata toccata dal produttore le è stata rubata la voce, proprio nel momento in cui aveva iniziato ad averla. Colui che invece ha usato violenza è solo una voce che gracchia dispotica al telefono della redazione del New York Times. La scelta è resa ancora più evidente perché Schrader decide di far comparire l’uomo, ma viene ripreso solo di spalle. Sceglie anche di non mostrare mai gli abusi ma di limitarsi a riprendere quello che resta dopo, l’impotenza, la disperazione, la rabbia.
Gli intenti quindi sono buoni ma continua a mancare qualcosa. Probabilmente la vicenda deve ancora sedimentare, è ancora troppo viva nella mente di tutti. Non aggiunge nulla a ciò che già è noto e se le sensazioni che suscita sono le stesse già vissute anche solo leggendo la notizia sui giornali ci si chiede, a ragion veduta, perché guardarlo.
In sala dal 19 gennaio.
Perché guardarlo? Per lo stesso motivo per cui lei se lo chiede. Perché ne vale la pena. Guardare ascoltare e leggere non è mai abbastanza