Nessun film meglio del pluripremiato Parasite può insegnarci l’importanza di un seminterrato e di come ciò che risiede al suo interno sia in grado di cambiare per sempre la vita di una persona. Il regista di quel film, Bong Joon-ho, tra l’altro è presidente di giuria alla 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove in Concorso è stato presentato l’attesissimo terzo lavoro da registi dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, America Latina.
Il duo, scisso nella doppia nomea di chi considera i gemelli tra i prodigi del nuovo cinema italiano e di chi invece è piuttosto scettico, si affida nuovamente a un Elio Germano calato nei panni del mesto Massimo Sisti. A capo di uno studio dentistico, marito, padre di famiglia e realizzato nella vita con una villa dall’aspetto pacchiano ma immersa nella quiete di uno spazio che dopo Favolacce rimane ancora una volta non meglio definito, sospeso. Vi veniamo introdotti all’interno così come si fa l’ingresso in un racconto che vuole posizionarsi dalle parti del “once upon a time”, dopo una breve carrellata del deserto che circonda una solo evocata Latina (e anche qui, ancora, alla televisione che è l’unico punto di paradossale contatto con il reale).
Ben presto qualcosa di sbagliato emerge dal ventre di questa casa silenziosa, abitata dalla moglie e le due figlie, creature angeliche con le quali Sisti ha la fortuna di vivere e di condividere giornate che hanno il sapore dell’eternità. Proprio questa casa è il principale referente di un film che svela la natura del suo titolo nell’andare a pescare da un immaginario visivo denso dei temi e dei luoghi del western di frontiera, che i fratelli D’Innocenzo svuotano di significato e piegano a un crepuscolare che affonda le radici nelle vene del thriller-horror psicologico.
Svuotano anche le pagine dello script e scarnificano la narrazione per inscriverla quasi esclusivamente dentro la forza di uno stile registico indubbiamente deciso (ancora in collaborazione con la fotografia di Paolo Carnera), che però si nutre di altrettante tracce che sfociano addirittura nell’espressionismo di un cinema che ripensa in alcuni istanti opere come Nosferatu di Murnau, per citarne una. La fibra non è la stessa del passato, più esile e sfilacciata nel fare affidamento a un’esposizione che è più gabbia che struttura, dove viene in soccorso solamente la solita straordinaria performance di un Germano che continua a confermarsi senza problemi tra i migliori attori d’Europa.
Il dramma, dopotutto, è ancora una volta quello che ruota attorno al paterno, rapporto sempre sincopato se non rotto, colonna che ritorna come un cardine onnipresente nella fino ad ora breve carriera dei due autori. Il fulcro è la progressiva caduta nella psicosi di un uomo in dubbio e nel dubbio, scisso e decostruito standogli addosso e frammentandone pezzo per pezzo il volto e le certezze, ma le cui fila narrative sono in fin dei conti ampiamente telefonate. Non è quello il cuore, certo, ma manca la compensazione tensiva, il reale shock. L’intento è sentito, la messa in scena assemblata per essere funzionale a fare da teatro degli orrori, ma lo scheletro è fragile e catturando come una calamità la cultura cinematografica portata su schermo dai D’Innocenzo America Latina finisce per lavorare nel déjà vu dell’inquadratura.
Ciò che si apprezza è soprattutto il coraggio dello spingersi altrove e allontanarsi, grazie al recente successo, dai lidi collaudati nei cui porti sono costretti ad ancorarsi le opere dei giovani autori, iniziando a battere dei sentieri nuovi e alternativi. Non ci sentiamo però di dire che America Latina sia un film particolarmente riuscito, tutt’altro, opera dal fiato troppo, troppo corto che si scrolla di dosso degli sfizi ma va a collocarsi come il lavoro più gracile che i registi hanno consegnato al cinema fino a oggi. Sapranno rifarsi senza problemi, ma bisogna tristemente riconoscere come questo sia un mezzo passo falso.