#Venezia81: Allégorie citadine, la recensione del cortometraggio di Alice Rorwacher e JR

Quella di Alice Rorwacher e JR è un’altra piccola e dolce fiaba urbana che vuole riesaminare, partendo dal classico mito della caverna, ogni limite imposto, nella speranza che tutta una comunità possa strappare i rigidi confini e voltarsi verso la luce. La “rivolta” comincia da Jay, un bambino di sette anni che per primo si libera dalle catene e fugge dalle ombre danzanti, per trovare quell’uscita sbarrata e nascosta da un’ingombrante scritta: “DIVIETO D’AFFISSIONE“, come a dire “non puoi lasciare un segno”.

Torna alla memoria Richard Sennet che nel suo La coscienza dell’occhio descrive la New York degli anni Settanta come un luogo di nessuno, ma dove si vuole lasciare un segno, appunto, una documentazione. Racconta dell’enorme numero di graffiti che appaiono sulle metropolitane, sui muri e su ogni oggetto che, indipendente dal suo scopo nativo, stava diventando tela. Un atto ribelle che è una fuga dal nostro mondo sensibile. E cosa non sono le opere di JR se non fughe dal quotidiano, testimonianze fisiche e filmate di volti, come nel bellissimo Visages, villages diretto con Agnés Varda, o elementi di necessaria rinascita come in Omelia Contina, la prima collaborazione JR-Rorwacher?

E anche il piccolo Jay rinasce (insieme a Lazzaro e ad Arthur) come manifesto vagante, dopo aver sentito le parole di (non a caso) Leos Carax, qui regista teatrale che deve provinare la madre del bambino per uno spettacolo di danza sul mito. Quindi qual è il verso giusto di guardare le cose? Jay lo sa, e deve spiegarlo agli altri, perchè non è possibile farcela da soli. La città cambia, la via per fuggire è stata scoperta, i muri vengono strappati e i confini ripensati. Dopotutto La chimera finiva con Gli Uccelli di Battiato che « cambiano le prospettive al mondo ». Perché sia il cinema di Alice Rorwacher, ‘uso che fa dei movimenti di camera e tecniche di ripresa, sia le opere di JR, le gigantografie, esistono per cambiare le prospettive, zoommare, analizzare, interpretare.

Ne I quattrocento colpi Antoine Doinel entra in contatto col pubblico, guardandolo e spezzando una distanza costituita. Qui, alla fine, Jay compie il passo successivo e squarcia lo schermo, come ad indicare anche al pubblico una via di fuga. Noi, come la comunità, guardiamo lo strappo, possiamo decidere se superarlo oppure no. «Forse non basta affermare che le immagini sono illusioni finché le catene che ci legano sono reali».

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