Foto di Camilla Cattabriga
Alain Parroni, classe 1992, è un giovane regista romano che si è distinto a Venezia per la sua opera Una sterminata domenica (trailer), presentata al festival nella sezione Orizzonti ed accolta molto positivamente dalla critica italiana (il regista ha vinto il Premio Fipresci). Parroni ha dialogato con noi riguardo al processo di creazione del suo film, sottolineando le difficoltà riscontrate per farsi notare nel panorama del cinema italiano di oggi. Si è dilungato, inoltre, su quella che è la sua idea di cinema, sull’importanza che la settima arte ha nella sua vita e sul desiderio che ha dato vita ad Una sterminata domenica: lasciare una traccia di se stesso e della provincia in cui è nato e cresciuto.
Che tipo di cinema ami?
Anche se sono cresciuto in campagna, nella provincia totalmente scarna, quasi post-apocalittica, come quella del film, c’è tutto un cinema europeo ed esistenziale che mi ha influenzato. Ma, i registi che amo particolarmente in questo momento della mia vita sono giapponesi dei primi anni del 2000. In Giappone, il diffondersi dell’home video ha portato ad una maggiore sperimentazione da parte dei cineasti. Uno dei registi che apprezzo è Toshiaki Toyoda, per me Aoi haru è un film meraviglioso. È perfettamente equilibrato: c’è un racconto di una scuola con delle tinte molto “anime”. Quando ero piccolo, nella provincia romana c’erano delle tv locali che facevano vedere delle serie tv giapponesi degli anni ’70 perché costavano di meno, quindi, tanta animazione degli anni ’70-’80 l’ho conosciuta così. Queste visioni hanno influenzato molto il mio modo di guardare il mondo. Altri registi che apprezzo sono Hideaki Anno e Shunji Iwai.
Il tuo modo di farlo, il cinema, si è ispirato a qualche modello di riferimento in particolare?
I registi che ho citato, nel periodo in cui stavo girando Una sterminata domenica, mi hanno dato uno “schiaffo in faccia”. Mi hanno fatto capire che del cinema potevo farne tante cose diverse, potevo avere la libertà di usare le lenti ed il montaggio in maniera assoluta. Da questo punto di vista abbiamo un grosso buco negli anni ’90 del ‘900 fino al 2000. In questo periodo, in Italia, ha dominato un po’ un cinema più “commerciale”. Molte opere prodotte potevano essere considerate più vendibili e venivano realizzate per paura che il cinema morisse. Noi italiani abbiamo una Storia del cinema molto invadente. Quando sei un giovane autore ti devi confrontare con registi che hanno veramente cambiato il cinema. Per forza di cose hai un’identità con la quale ti scontri. Io, ambientando il mio film in provincia, mi sono trovato davanti a giornalisti che riguardo al mio film facessero riferimenti a Pasolini, Caligari. Giustamente, perché anche loro hanno influenzato il mio modo di vedere le cose.
Potresti parlarci della tua carriera? Da dove sei partito, dove hai studiato e come sei arrivato a presentare il tuo film nella sezione Orizzonti di Venezia.
Durante il liceo ho sempre girato un po’ di cose. Ho provato a realizzare la mia versione di Matrix 2 utilizzando le giostre come effetti speciali. Da piccolo sono sempre stato affascinato dal riprodurre ciò che vedevo al cinema. Ho studiato al liceo grafica e fotografia. Fino al terzo anno c’era ancora l’analogico e dopo c’è stato lo switch con il digitale. Subito dopo il liceo mi sono iscritto in un’accademia di belle arti privata che si trova a Roma. Il corto che ho fatto il terzo anno l’ho presentato alla Settimana della Critica a Venezia sei anni fa. Con questo progetto ho svoltato un po’ le cose. Ho girato vari festival e sono riuscito a farlo vedere molto, in varie parti del mondo. Ma soprattutto, avevo una sorta di biglietto da visita per proporre progetti nuovi.
E da lì hai cominciato hai cominciato a partorire l’idea che ha dato origine ad Una sterminata domenica…
Nel 2018 ho cominciato a cercare produttori per realizzare Una sterminata domenica, riscontrando anche alcuni problemi, perché non riuscivo a trovare persone che capissero il modo in cui io volessi produrlo. È stato un percorso arduo che è durato almeno quattro anni. Parallelamente lavoravo come fotografo di scena, cosa che mi sembrava la più efficiente: andavo su tanti set, da quelli Susanna Nicchiarelli, Matteo Garrone, a quelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Scattavo, giravo, facendo domande a tutti i reparti, il che è stato molto formativo per me. Durante un’esperienza al Centro Sperimentale ho avuto modo di conoscere tutta la squadra che ha effettivamente lavorato ad Una sterminata domenica, tra cui il produttore Giorgio Gucci (Fandango), il quale, successivamente, ha scritto a Wim Wenders mandandogli il mio corto, per integrarlo nella produzione del film. La mia scelta è stata quella di non affidarmi a qualche produzione a caso pur di fare il film, ma di aspettare, con tutti i momenti di vuoto e buio che ne sono conseguiti, qualcuno che capisse le mie idee in maniera adeguata. È stato un percorso complicato, ci sono stati dei momenti molto distruttivi.
Foto di Mino Capuano
Ci puoi parlare del rapporto che Una sterminata domenica ha con il mondo degli anime ed, in generale, con il cinema giapponese?
Quando ho deciso di affidare le musiche del mio film a Shirō Sagisu molte persone intorno a me non riuscivano a capire cosa c’entrasse un musicista giapponese con la periferia romana. Credo che nel mio film si senta molto questo contrasto, sono sicuro che, in generale, quello che un primo film dovrebbe fare è questo: dividere molto. Gli spettatori che hanno anche una cultura sul mondo dell’animazione riescono a percepirne molte forme, chi invece si ferma al cinema del reale, alla vita in una provincia romana, ha una sola lettura e può rimanere un po’ interdetto su alcuni aspetti. Credo sia un film molto stratificato, come in generale lo sono i film d’animazione d’adulti. In un momento di crisi totale ho fatto un viaggio in Giappone, in particolare nelle provincie giapponesi. Ho trovato molti aspetti simili a quelli della provincia romana. Il mio scopo non era quello di deridere o “scimmiottare” il Giappone, ovviamente, ma riconoscere dei punti in comune tra la loro vita di provincia e la nostra.
Come è stato il rapporto che hai costruito con i giovani interpreti del film? Considerato che tutti e tre i protagonisti sono attori emergenti, è stato più facile lavorare con loro perché più malleabili o hai riscontrato delle difficoltà?
Innanzitutto, è stato complicato trovarli. In sei anni, mentre stavo scrivendo i personaggi del mio film, ho fatto molte interviste ad adolescenti. Non erano casting, ma una vera e propria ricerca di scrittura per ricostruire un’adolescenza che io stavo abbandonando. Quindi, solidificavo dei personaggi che in realtà non riuscivo a trovare. Abbiamo fatto i provini ufficiali negli uffici Fandango incontrando degli attori fenomenali, che facevano degli Alex, delle Brenda impeccabili. Il problema era che quando li mettevo insieme non si andava a creare quella dimensione di gruppo che per me era fondamentale. Un giorno ho mescolato quelli che sono poi stati gli effettivi protagonisti del film, Enrico Bassetti, Federica Valentini e Zackary Delmas ed ho notato che insieme funzionavano moltissimo. Non abbiamo fatto un provino canonico ma una semplice passeggiata tutti e quattro e mi sono sorpreso di riscontrare che già avevano creato una gerarchia interna. Federica ed Enrico erano molto vicini e Zack girava loro intorno (dinamiche che effettivamente ci sono nel film). Abbiamo affiancato loro un acting coach perché Enrico e Zack provengono dal nord Italia e mi serviva che parlassero romano. Appena ho sentito il loro romano ho pensato che fosse perfetto, dato che non stavo cercando un romano solido ma un po’ “imbastardito”. Ed il loro era sbiascicato, con un po’ di inflessioni derivanti dalle parlate dei loro paesi d’origine. Dirigere i tre attori è stato facile in tutte le scene in cui erano insieme, lasciavo loro molto spazio ed andavo io a seguirli, mentre nelle scene in cui erano da soli, che richiedevano più costruzione, è stato più complicato.
Hai qualche consiglio che ti senti di dare a chi vorrebbe intraprendere la carriera registica in Italia, in questo periodo storico?
Non è molto difficile realizzare un film oggi, ogni anno partono centinaia di produzioni, la difficoltà è farlo vedere a più pubblico possibile. Il ruolo del regista oggigiorno comporta minimo dieci lavori diversi coniugati insieme. Il consiglio che do sempre è riconoscere il proprio sguardo interiore e capire i motivi per cui si vuole raccontare una storia. Riconoscere, inoltre, quali sono gli sguardi che ci hanno cresciuti e cercare di capire anche quale sia il nostro di sguardo. È importante capire quello che amiamo, ma non appropriarsene, cavalcarlo. Consiglio a tutti di cercare la sincerità dentro di sé per scaricarla sul proprio lavoro. Se avete dei dubbi su di voi, ditelo a tutti, fatelo vedere.
Intervista a cura di Francesca Nobili e Claudia Teti.