
Perché chiamare una miniserie thriller Adolescence (trailer)? Il titolo sembrerebbe più indicato per un teen drama che per una serie con omicidio e indagini. Almeno questo si è portati a pensare guardando il primo episodio. Continuando la visione, la scelta risulta ben chiara: il lavoro di Jack Thorne e Stephen Graham, in cima alle classifiche Netflix, è molto più di un giallo.
La serie si apre con l’arrivo della polizia in casa Miller, una famiglia inglese come le altre, sconvolta dall’improvvisa e violenta irruzione degli agenti. Questi si precipitano su per le scale e spalancano la porta: il figlio tredicenne Jamie Miller (Owen Cooper) è in arresto per l’omicidio di una sua compagna di classe. Tramite salti temporali progressivamente più ampi, il racconto prosegue analizzando lo svolgimento delle indagini dell’ispettore Bascombe (Ashley Walters) e gli effetti catastrofici dell’accusa sul ragazzo e sulla sua famiglia. In particolare, risulta centrale il rapporto fra il giovane Jamie e il padre Eddie, portato magistralmente in scena dallo stesso Graham.
L’incriminazione dell’adolescente sconcerta tutti, spettatore compreso. Perché il ragazzo, interpretato in modo eccellente dal talentuoso attore allora quattordicenne Cooper è molto giovane, piccolo. Sulle prime, il pubblico empatizza con un protagonista dall’aria innocente, che incarna perfettamente il fratello minore bisognoso di protezione, come quando bagna il letto all’arrivo dei poliziotti. È solo con il dispiegarsi delle puntate che emergono le zone d’ombra, e anche un ragazzo sembra capace di azioni molto più grandi di lui.

Così, si focalizza l’attenzione sulla misoginia e gli omicidi di genere, che abbandonano il mondo degli adulti per penetrare con violenza in quello degli adolescenti. I catalizzatori di questo processo sono ancora una volta internet e i social network, che espongono i ragazzi ad informazioni un tempo inaccessibili alla loro età, fornendogli nuovi modi per essere crudeli. Ad esempio, la serie fa spesso riferimento, più o meno velatamente, all’influencer americano Andrew Tate, ex kickboxer e personalità controversa per i messaggi sessisti e violenti lanciati in rete.
Ma il collante della serie è il rapporto padre-figlio. A dispetto del titolo, la narrazione non si sofferma unicamente sull’universo adolescenziale. Piuttosto, accenna ad uno sguardo generazionale, che abbraccia nonni, genitori e figli, uniti da una comune incapacità di esprimere i propri sentimenti. Più di tre generazioni che perpetuano la stessa idea di mascolinità, ormai fuori tempo massimo. Con piccole variazioni e diverse gradazioni, Eddie e Jamie condividono atteggiamenti violenti, incapacità di gestire la rabbia e sottili accenti di sessismo, talvolta insabbiati da luoghi comuni ormai ben radicati nella nostra cultura.
Nonostante ciò, lo spettatore non può fare a meno di empatizzare con personaggi che potrebbero essere parenti, familiari. Questo perché ogni difetto viene presentato come parte di una personalità complessa, il lato oscuro di una fragilità in pena, in cui chiunque può riconoscersi – dalla paura delle opinioni altrui, al desiderio di essere amati, all’incapacità di esprimere le proprie emozioni. D’altra parte, la serie non sembra voler promuovere giudizi sui suoi personaggi. Racconta i fatti, le dinamiche degli eventi, e piuttosto fa emergere domande insistenti: quanto i genitori sono responsabili delle azioni dei figli? Cosa plasma la personalità di un adolescente? Esiste un confine concreto fra vittima e carnefice?

Dal punto di vista narrativo, l’astenersi della miniserie dal proporre facili risposte soggettive corrisponde ad una specifica tecnica di ripresa. Infatti, il regista Philip Barantini ha realizzato ognuno dei quattro episodi come un unico, lunghissimo piano sequenza. Un’impresa titanica, se si pensa che ad ogni errore grave la troupe era costretta a ricominciare dall’inizio. Questo tipo di ripresa evita il montaggio classico, mantenendo la durata oggettiva dell’azione e presentando, almeno teoricamente, gli eventi così come si sono svolti. Sta allo spettatore formulare ipotesi e risposte del tutto personali, poiché la serie non ne fornisce.
Piuttosto, questi piani sequenza garantiscono una completa immersione nella realtà quotidiana, permettendo una immedesimazione totale nei vari personaggi. Esperendo ogni volta un’ora completa della loro vita, si incorre inevitabilmente in rallentamenti e tempi morti, equilibrati però da un’accorta dose di colpi di scena e momenti di accelerazione, come i vari scatti d’ira rappresentati. Inoltre si alternano scene-formicaio, con il susseguirsi di molti attori e l’adozione dei loro punti di vista, ad altre più raccolte, con lunghi dialoghi che permettono di cogliere l’intimità dei protagonisti. In questo modo, si ricrea la forte emotività tipica del teatro, costruita sugli scambi di battute ed enfatizzata da un piano sequenza che dà l’impressione di star assistendo ad una performance dal vivo.
In conclusione, Adolescence è una miniserie che vince l’attenzione del pubblico anche in scene in cui la sfida sembra impossibile, come durante i lunghi interrogatori. Anche gli occasionali rallentamenti sono ammessi, in nome di una scelta registica efficace e originale. Il risultato è una serie coinvolgente, che riesce a comunicare con lo spettatore più di quanto i suoi personaggi non facciano fra di loro.