Dopo aver diretto nove cortometraggi di cui uno, Tattoo, vincitore dell’Orso di Cristallo al Festival internazionale del cinema di Berlino nel 2019, il regista iraniano Farhad Delaram debutta alla Festa del cinema di Roma con il suo primo lungometraggio: Achilles. Si tratta di una coproduzione che vede come protagonisti Francia, Germania e Iran uniti nell’intento di raccontare non solo gli effetti dell’oppressivo regime iraniano ma, soprattutto, le lotte messe in atto dai cittadini al fine di rivendicare la loro libertà.
Nel cast è presente anche l’attrice Behdokht Valian che aveva collaborato con Delaram in Tattoo nel ruolo di protagonista e che vediamo interpretare Hedieh Saghari, un’attivista e rifugiata politica abbandonata al suo destino all’interno del reparto di psichiatria dell’ospedale in cui lavora Achille Farid (Mirsaeed Molavian). La back story del protagonista ricalca alcuni aspetti della vita del regista che, per un periodo, è stato costretto ad abbandonare il cinema per colpa degli sbarramenti del Ministero della Cultura iraniano. Tuttavia questo particolare non risulta di facile comprensione all’interno della storia dove Farid, nel ruolo di quello che appare essere un fisioterapista, accenna solamente di aver dovuto lasciare il precedente lavoro a causa delle forti opposizioni che lo hanno portato a pensare di avere solo due possibilità: lasciare il paese o rimanere in silenzio.
Achille ci viene mostrato come un uomo profondamente amareggiato e inquieto ma anche, in parte, arreso a un destino di infelicità che alimenta scegliendo di allontanare da sé i suoi cari, ignorando tutti i loro sforzi di avvicinamento. Particolarmente significativa è la scena con il padre, nella quale dopo un abbraccio particolarmente sentito da parte di quest’ultimo, culmine di una totale dimostrazione di amore, il protagonista replica in modo distaccato facendo notare al padre che quello è stato il loro primo (e unico) abbraccio.
La storia si sviluppa attraverso la scelta di Achille di aiutare una paziente, Hedieh. L’effetto della sua buona azione è un richiamo sul posto di lavoro. A questo punto l’uomo, arrivato al culmine della frustrazione, agisce di istinto licenziandosi. L’impulso di ribellione, però, non si esaurisce solo abbandonando l’ospedale; Achille decide anche di far “evadere” Hedieh per quella che appare come un’ innocua fuga notturna. Fuga che, una volta scoperta l’identità della donna, si trasforma in un vero e proprio viaggio on the road. La meta è la casa della nonna al confine con la Turchia ma, nonostante il protagonista sia messo a conoscenza che la polizia nel frattempo sta interrogando la moglie e il padre, non vuole né riesce a frenare Hedieh finendo per lasciarsi trascinare nei suoi vagabondaggi.
I due, infatti, non si approcciano al viaggio con misure di sicurezza stringenti (come quella di mascherarsi i volti o concedersi le soste strettamente necessarie); al contrario si lasciano trasportare dai personaggi anonimi che incontrano durante il tragitto, creando dei momenti dedicati alla scoperta dell’altro. Una delle scene più toccanti è quella in cui Achille, con l’aiuto della rete, riesce a contattare la figlia che Hedieh ha lasciato dietro di sé alcuni anni prima. Una scena duplice dove il protagonista, lasciando a madre e figlia la loro intimità, chiama la moglie per la prima volta da quando è iniziata la fuga spezzando finalmente quella linea di incomunicabilità che li aveva divisi.
Il film si chiude in maniera simbolica: Achille scopre che mentre era al telefono con la moglie Hedieh è stata portata via da persone sconosciute. L’uomo allora inizia a scagliarsi contro il muro in quello che appare quasi un gesto metodico, privo di rabbia o rassegnazione ma quasi necessario per raggiungere la donna. Il muro si crepa e l’ultimo frame riporta le seguenti parole: «Dedicato al popolo iraniano che non tollera più i muri». Un film che pone l’accento su una dimensione individuale di libertà, intesa come la necessità di scoprire se stessi e gli altri e non rinunciare ad amare.