L’espressione ormai celebre “Lubitsch touch” (il tocco alla Lubitsch) è servita per anni ai paladini della teoria degli autori per indicare quell’impalpabile qualità di leggerezza, sottintesi e ironia effimera che percorreva la scrittura – sia sceneggiatoriale che registica – del cinema di Ernst Lubitsch, presente quasi in filigrana all’interno opere in apparenza convenzionali e ligie al sistema produttivo dell’epoca. Molti anni dopo un altro regista di nome Paul Verhoeven, sempre proveniente dall’Europa più licenziosa – soprattutto agli occhi dell’America degli anni ’80, in pieno reaganismo, colpita da un’insorgenza valori puritani WASP e corporativismo sfrenato – si inserirà nel sistema hollywoodiano mimetizzandosi alla perfezione. E dopo 35 anni di Robocop (trailer), uscito nelle sale statunitensi il 17 luglio del 1987, forse sarebbe il caso di inaugurare il termine “Verhoeven touch” per definire quell’impercettibile equilibrio fra serietà e farsa, cinema popolare e provocazione d’autore capace solo a questo regista, capace come Lubitsch di nascondere la sua naturale irriverenza sfruttando i codici di un cinema di intrattenimento “senza pretese”.
Non è difficile capire come mai all’epoca Robocop sia stato buttato nel mucchio dei vari action machisti ed eccessivi di quegli anni, che vedevano protagonisti i corpi deformi e superomistici dei vari Schwarzenegger, Van Damme, Bruce Willis e Stallone. Robocop segue le caratteristiche di quel cinema in maniera quasi ossequiosa, imitandole alla perfezione ma contenendo al suo interno la loro stessa distruzione. Il suo protagonista è per certi versi il passo successivo di questa trasformazione dei corpi maschili, un uomo-macchina che parla poco, privo di qualsiasi personalità ed emozione, capace di sfornare frasi ad effetto perfette per slogan promozionali (“Dead or alive, you’re coming with me”), già pronto per diventare un’action figure destinata ai bambini (nonostante il contenuto estremamente violento del film). Verhoeven e Ed Neuemeier (sceneggiatore del film) però complicano quest’identificazione rivelando la natura markettizzabile di Robocop all’interno della narrazione e prendendo di mira apertamente la società dei consumi.
La Detroit futuristica immaginata dai due autori è governata infatti dalla cinica corporazione OCP (Omni Consumer Product), che vuole radere al suolo la vecchia città – ormai alla mercé della criminalità organizzata – per fare spazio a Delta City, ambizioso complesso edilizio destinato agli strati sociali più alti della popolazione. Per portare avanti il loro progetto i dirigenti della OCP cercano la nuova frontiera delle forze dell’ordine, qualcuno che “non abbia bisogno di dormire e di mangiare”. L’agente di polizia Murphy (Peter Weller) viene perciò trasformato, in seguito a una sparatoria in cui perde la vita, in Robocop, cyborg inarrestabile al servizio delle forze dell’ordine. La sua identità umana viene sostituita da tre direttive: garantire l’ordine pubblico, proteggere gli innocenti e imporre la legge. Il suo corpo appartiene all’azienda, che può venderlo e programmarlo come vuole, fare innesti tecnologici e farlo diventare una macchina da guerra senza il suo consenso. È solamente un “prodotto”; al contrario dei replicanti di Blade Runner non ha la libertà di ribellarsi contro i suoi creatori per via di una “quarta direttiva” che gli impedisce di arrestare i membri della corporazione.
Nel futuro immaginato da Verhoeven e Neuemeier tutti sono ossessionati dal consumo e dalla scalata al successo. I “media break” all’interno del film – piccoli intermezzi televisivi che servono a spezzare la narrazione fornendo piccoli momenti espositivi allo spettatore – contengono un piccolo specchio di una società ormai vampirizzata dal consumismo; la guerra nucleare diventa un potenziale gioco da tavola (“Nukem! Get them before they get you”), la violenza è all’ordine del giorno ma viene raccontata con larghi sorrisi dagli imperturbabili speaker televisivi.
Tutti i personaggi del film in un modo o nell’altro sono condizionati dalle promesse di successo standardizzato e “americano” rappresentate sul piccolo schermo: da un terrorista che tiene in ostaggio il sindaco e chiede una macchina vista in una pubblicità poco prima (la SUX 2000) ai gangster che guardano ossessivamente una sitcom (con la catchphrase “I’d buy that for a dollar!” ormai divenuta iconica), fino allo stesso Murphy, che per accontentare suo figlio cerca di imparare un gioco di agilità con la pistola che fa un cowboy in tv, rispecchiando l’ideale di giustiziere violento in cui verrà poi trasformato. In questa società meccanizzata e ipergerarchica chiunque è rimpiazzabile e chiunque è “riparabile”. Persino il cattivo principale del film potrà essere sconfitto solamente dopo essere stato licenziato, punito per aver fatto perdere soldi alla compagnia prima ancora che per i crimini commessi.
La magia del “tocco” di Verhoeven sta nel riuscire a integrare organicamente questi temi senza mai scoprire del tutto le sue carte, lasciando che il film sfiori appena la parodia senza mai diventarlo veramente, mantenendo un tono convinto e sincero anche nei momenti più paradossali. Anche dopo tanti anni Robocop è una macchina di intrattenimento implacabile come il suo protagonista metallico, in grado di stimolare allo stesso tempo il nostro intelletto e i nostri più primordiali “istinti di base” che il regista conosce così bene.