Holy Shoes, la recensione: non tutto è oro quel che si compra

Holy Shoes recensione Dasscinemag

Avete mai fatto un puzzle? Si inizia dalla cornice, così è più semplice: si delimita uno spazio. Dopodiché servono intuizione, fortuna e pazienza. Con la calma e la perseveranza tutto prende forma, si inizia a trovare un senso. Quando arrivano gli ultimi due pezzi di cielo, che si uniscono perfettamente, la soddisfazione è unica e impagabile. Questa è la sensazione che si prova durante la visione di Holy Shoes (trailer), film d’esordio di Luigi Di Capua.

Quattro storie, apparentemente legate tra loro unicamente dal fil rouge delle scarpe, si intrecciano sullo sfondo di una Roma viva, vera. Dimenticate la borghesia snob de La grande bellezza o la criminalità sporca di Romanzo Criminale: la città eterna che si respira è la stessa che si percepisce camminando tra le strade. I quattro personaggi fanno da specchio a una morale nichilista che porta con sé poca speranza per il futuro: un padre di famiglia, inglobato dal cinico e effimero mondo dell’hype, cerca di rimanere bambino procurandosi scarpe per i concerti di cantanti trap; un ragazzino quattordicenne, cresciuto in ambienti patriarcali, è disposto a tutto per soddisfare la sua fidanzatina; una ragazza cinese con il sogno di andare a studiare a Boston trova un modo per guadagnare i soldi necessari per partire; una donna sulla sessantina, in crisi con il marito, cerca di riscoprire la sua identità.

La scelta della scarpa come collante è usata in maniera molto intelligente. Per fare una critica, a tratti pure spietata, al consumismo, si passa attraverso un’icona. Per gli appassionati di NBA il discorso è molto più limpido: le Air Jordan, le celebri sneakers ideate per l’atleta più forte di tutti i tempi, assumono la funzione di reliquia del campione, un senso di appartenenza leggendaria al modico prezzo di una transazione economica. In questo modo la sacralità diventa acquistabile in un processo storico ormai quarantennale, abbastanza tempo per aver reso quotidiana e normale questa prassi del comprarsi un frammento di paradiso. La Typo 3, modello inventato appositamente per il film, raccoglie proprio questo potere: la scarpa brilla di luce propria, ti dà l’illusione di poterti salvare.

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Il modo in cui l’autore riesce a non cadere nella trappola del didascalismo da spot progresso è l’occhio distante, osservante ma mai giudicante, attraverso il quale vediamo le storie di questi personaggi. Non c’è mai una spiegazione, un fastidioso esplicito, piuttosto riflessioni e sottotesti. Non c’è mai troppo: le interpretazioni asciutte e la regia scevra di virtuosismi sono entrambe in funzione della sceneggiatura, della storia e delle sue pedine, non del suo significato; ma è proprio girandoci intorno che quest’ultimo si arricchisce. Le precedenti esperienze di Luigi Di Capua, il lavoro con il gruppo comico dei The Pills e le diverse sceneggiature a cui ha partecipato (tra cui spiccano i due sequel di Smetto quando voglio), sono evidenti: gli hanno concesso di plasmare un’opera matura, dove i tratti di comicità grottesca a cui già ci aveva abituato si fondono alla sincerità arrabbiata di chi ha davvero qualcosa da dire.

Un aspetto palpabile che non si può ignorare è la cinefilia della mente dietro il progetto. In più occasioni l’autore ha parlato dei suoi gusti spettatoriali e delle sue influenze, citando ad ogni occasione concessagli la Trilogia sulla morte del regista messicano Alejandro González Iñárritu. La struttura corale è in effetti chiaramente ispirata a questi, ma sono anche altri i riferimenti filmici presenti. In una scena del film tanto surreale quanto bella e intensa, assistiamo a una pioggia di scarpe che ci riporta in altri due mondi narrativi molto diversi ma estremamente coerenti: Laurence Anyways di Xavier Dolan e la sua iconica danza di vestiti, a cui sembra rifarsi da un punto di vista sia visivo che identitario, e Magnolia, altro film corale, con la sua tormenta di rane, che ci fa riflettere sulle conseguenze della casualità. Ma c’è molto altro: c’è la stima per i grandi maestri che lo hanno preceduto e la ricerca di un modo personale di sfruttarli; il film non è un’accozzaglia di merce rubata, ma un racconto con omaggi ispirati dall’amore per l’arte.

Ma cosa rimane davvero di questo film? Ci sono due modi per rispondere a questa domanda, uno nelle logiche di mercato e uno a livello filosofico. Partiamo dal primo, forse un po’ aromantico ma sicuramente interessante. Holy Shoes è un esordio di un giovane che, in modo anacronistico dato il tema trattato, concede una rinnovata speranza al cinema italiano che si sta costellando di nuove menti e nuove mani, come se ci stessimo preparando a rivivere un momento di ricchezza autoriale, non un movimento uniforme ma tante piccole gocce che riempiono l’oceano delle sale di freschezza qualitativa (pensiamo per esempio anche a Gloria! di Margherita Vicario, molto differente ma che procede sullo stesso binario di bellezza). Dall’altra parte, Holy Shoes è un film che si domanda e ragiona, un urlo di risveglio che gioca con la nostra realtà, ci si affianca e ci mette la pulce nell’orecchio (e non, come si tende a fare, il fastidioso e saccente grillo parlante).

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Concludiamo lasciando la parola ai protagonisti, riportando qui un estratto di un dialogo con l’interprete Isabella Briganti e l’autore Luigi Di Capua che raccoglie molto dell’essenza e dello spirito di Holy Shoes.

In questa concezione di evoluzione, mi è venuta in mente una scena splendida in cui Isabella parla della mitologia della donna al bancone. Cos’è la mitologia in questo contemporaneo in cui ci sono questi simboli fortissimi e labili?

Isabella: è l’immagine della perfezione che non esiste. A noi oggi cosa ci nutre? Uno ci casca e fa tutto per essere così, ti fai crescere le unghie che sembrano zampe di galline; ti edulcori, ti edulcori, ti edulcori fino a che diventi un mostro.

Luigi: sicuramente in quella cosa, come ha detto lei, racchiude molto. Lei dice «Il bancone ti slancia e ti dà mistero», perché il bancone? Perché il bancone ha una distanza con te e, quindi, come dice Isabella è vero nel senso che la distanza da te crea un’immagine che non è tua ma è l’immagine di quello che gli altri riempiono di te, cioè se tu vedi l’elemento della figura misteriosa sarà sempre perfetta perché non la conosci, non sai chi è, è distante. Il bancone ti mette su un piedistallo e sul piedistallo la lontananza dal te, soggetto adorante e oggetto adorato, questo gioco continua ad esserci e rimani sempre affascinato dalla perfezione, ed è una chimera che tu insegui. Il bancone è come se fosse la metafora di un post su Instagram, tutte le vite sono perfette se restano ad una distanza. Questa cosa però produce in noi un enorme senso di frustrazione perché noi vediamo in quella perfezione qualcosa che non siamo e quindi questo senso di inappetenza, questo senso di non riuscire mai a raggiungere quella forma, è anche quello che poi spinge le persone a consumare, a comprare, a rifarsi, perché qua parliamo di scarpe ma possiamo potenzialmente allargare il discorso a tanto altro. Il desiderio di possedere un oggetto può essere anche il desiderio di possedere quelle labbra o di possedere quel naso o di possedere quel seno, di possedere quell’uomo, quella donna, quella casa quel lavoro…

Isabella: è la fuga dall’anima, da quello che poi uno è e ha dentro perché la vita poi fuori si svolge organicamente, cioè se uno guarda il cielo, le stelle, si fa una passeggiata nel parco, si fa una nuotata nel mare è felice. Non è che per essere felice abbiamo bisogno di chissà che, però ci fanno comunque tante strutture e sovrastrutture che ci fanno credere che per essere felici dobbiamo possedere i desideri. Poi dove vanno a cozzare contro qualcosa che dopo che lo hai ottenuto non ti riempie ma ti senti ancora più vuoto e allora è un circolo vizioso. Quindi il personaggio di Agnese, in particolar modo, ma come tutti i personaggi di Holy Shoes, attraverso questo processo di dannazione, in realtà compie un cammino evolutivo perché una volta che hai toccato il fondo c’è di buono che per risalire qualcosa devi cambiare. Infatti nella scena finale, soffertissima scena, vediamo una Agnese che dà uno stacco di diecimila anni a quello che era prima grazie a quella discesa negli inferi. […] Quella dannazione per lei è salvifica quindi è una Agnese che emana una luce. Mi auguro che veramente il cinema italiano non sia più visto solo da ciechi intellettuali ma che qualcuno abbia vista intellettuale per capire il lavoro, quanto ce li siamo sudati quei personaggi. Abbiamo, Simone (Liberati), io e gli altri, lavorato mesi con Luigi. Ci siamo sottoposti a…

Luigi (ironicamente): …la mortificazione visiva, quello pieno di brufoli, quello senza gamba… Dicevo sempre togli il trucco, togli il trucco, dai dai un po’ di trucco…

Isabella: ci ha voluto distruggere. Ha avuto anche lui la fortuna di lavorare con attori intelligenti che hanno capito che questa prova attoriale che ci è stata consentita meritava che fossimo disposti a sacrificare tutto di noi e la prima cosa che abbiamo sacrificato è stata proprio l’immagine.

Luigi: anche Carla (Signoris), sono tutti personaggi che poi sullo schermo vengono fuori.

Isabella: Simone la pella butterata, Luciana una casalinga disperata, Filippetto che diventa un demone, gli mancano le corna e la coda ed è un demone, come vuoi chiamarlo? Questo film ha solo bisogno di questa luce intellettuale da parte di chi lo vedrà. Intelletto non inteso come persona di cultura, anche perché non è sempre sinonimo di saggezza. Ci siamo? Siamo connessi con la parte più profonda di noi? Siamo dentro Holy Shoes.

Luigi (ridendo): è più fomentata lei!

Al cinema dal 4 Luglio.

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